venerdì 30 agosto 2013

I'm Back!

Eccomi qua, appena tornata fresca fresca dalla crociera!
Vi sono mancata? (Anche no, lo so).
Sono partita con tutte le intenzioni di fare la brava ragazza: netbook, appunti, un tot di parole al giorno da scrivere. Volete sapere com'è finita? Che ho acceso il netbook solo per caricare l'e-reader. Non solo non ho scritto una parola, non ho nemmeno pensato a scrivere: ero troppo impegnata a godermi la vita.
Nei prossimi giorni vi racconterò qualcosa di Olimpia - ho corso nello stadio, quello vero! -, di Atene - Partenone meraviglioso, ma in città la crisi si respira insieme all'aria e ti lascia senza parole -, di Efeso - e dei suoi cessi pubblici perfettamente conservati -, di Dubrovnik - che sembra finta tanto è pulita e ben tenuta - e soprattutto della meravigliosa Istanbul!
(Ma adesso sono veramente sfinita: sono in piedi da stamattina alle cinque... e ancora devo preparare la cena, che è finita la pacchia del ristorante!)

martedì 13 agosto 2013

Girls just wanna have fun.

Questa è bella e vi lascerà a bocca aperta, soprattutto visto il post di ieri.
Mentre la revisione-inglesizzazione di Kismet procede (e forse procederà anche in crociera), ho appena partorito un'altra delle mie folli idee.
Ora, mettiamoci il cappello bianco (sto leggendo Sei cappelli per pensare e ve ne parlerò) e iniziamo dai fatti.
  1. il romance è un genere molto strutturato, specie oggigiorno. (Sarebbe un modo carino per dire che le trame sono tutte uguali.)
Ora voi vi chiederete: cosa c'entra il romance, adesso? C'entra, c'entra.
C'entra perché ho deciso di provare a scriverne uno.
No, non sono impazzita. Ho sempre il cappello bianco in testa, ragion per cui vado a spiegarmi.
Innanzitutto, sgombriamo il campo dai fraintendimenti: non è una questione di "scrivo un romance e faccio i fantamiliardi". Non è nemmeno una questione del "scrivo un romance e riformo il genere". Oppure "visto che la fantascienza in Italia non tira, provo con un genere di moda".
Lo leggerà solo la persona che lo scrive con me (non ve l'avevo detto? Ho coinvolto qualcun altro in questo folle progetto): non credo avrò il coraggio di chiamare in causa le mie fedeli Socie - con tutto che loro di mie schifezze se ne sono sorbite a iosa! Quindi rilassatevi, non sto cedendo al lato oscuro dell'editoria.
Detto fuori dai denti non ho un gran rispetto per il romance. Quello moderno, intendo. Lo trovo scemo. Parecchio scemo. Malscritto più spesso che no. Privo di una qualsiasi parvenza di documentazione alle spalle. E, spiace dirlo, finisce per essere una imbarazzante vetrina di orrori sia grammaticali che tecnici. Non mi impressiona nemmeno il maschio fascino del protagonista di turno per il quale, di solito, provo repulsione mista a pena.
E allora perché lo vuoi scrivere?
Per tre motivi.
Primo - e più semplice - per riderci su. Vi sembra strano? Non so cosa dirvi: provate mai l'impulso di mangiare schifezze o fare cose sceme solo perché fa ridere? Beh, io sì. E il pensiero di avere a che fare con eroi testosteronici ed eroine svenevoli mi fa morire dalle risate. Pensatela come l'equivalente scrittorio di saltare dentro le pozzanghere. Ognuno si diverte un po' come vuole, no?
Il secondo - un po' puerile, lo ammetto - è: sono curiosa. Scrivere romance è facile come sembra? Il mio obiettivo sarebbe - una volta fissato tutto - portare a casa una prima stesura in dieci giorni.
Il terzo ed ultimo - che rappresenta l'unico lato positivo della faccenda - è questo: voglio provare a pianificare, usando tutte le tecniche da manuali di scrittura - index card in testa. Scrivere solo una volta definito tutto.
E il romance, standard com'è, è perfetto.
Non solo, proprio perché di questa storia non me ne frega niente mi sento libera di adottare un approccio... da catena di montaggio, se vogliamo. 
Forse capirò come essere un po' meno giardiniere e un po' più architetto anche nelle storie delle quali mi importa.
Personaggi costruiti a tavolino. Viaggio dell'eroe alla mano. Arco di trasformazione da manuale. E tutto questo senza patemi, senza sbattere la testa al muro, così, in totale relax.
Mi divertirò da morire. Anzi, ci divertiremo da morire, la mia compagna d'avventura e io.



lunedì 12 agosto 2013

Discorsi *ipotetici* su libri *ipotetici*

Allora, facciamo un discorso molto *ipotetico*. 
Diciamo che c'è un importante premio letterario. Uno di quelli famosi, uno di quelli che vantano fra i vincitori premi Nobel e genii della letteratura mondiale.
E, *sempre ipoteticamente*, diciamo che a un certo punto lo vince un'esordiente.
Ora, data la nomea, ci si aspetterebbe un prodotto di un certo livello.
Ma *sempre in via ipotetica* iniziano a girare voci piuttosto strane. Da più parti si sente dire che questo *ipotetico* libro sia, come definirlo?, una fetecchia.
Ora, prendiamo una *ipotetica* lettrice. Bibliobulimica è senz'altro un termine più calzante. Come ogni personaggio che si rispetti, ha un fatal flaw. Un difetto, diciamo, uno di quelli che, potenzialmente, ti mettono nei casini. Il flaw ci vuole, nei personaggi, sennò vengono piatti. Non lo dico io, lo dicono i manuali di scrittura, se non vi sta bene prendetevela con loro. Atteniamoci ai fatti: c'è un personaggio, ha un fatal flaw e questo fatal flaw è la curiosità.
Lo ammetto, non è che sia granché. Di personaggi troppo curiosi è piena la letteratura.
La curiosità è quella cosa che poi ti fa ficcare il naso esattamente dove ti era stato detto di non ficcarlo. Di solito, quando succede, trovi delle brutte cose. Tipo mogli morte, non so se rendo l'idea.
Ma la nostra bibliobulimica è curiosa, non sente ragioni (sennò, che fatal flaw sarebbe?). E stavolta, è curiosa di leggere un libro. Quel libro, quello *ipotetico*. E lo fa. (No, non lo compra: se lo fa prestare. Perché curiosa sì, ma attenta al portafogli.)
E cosa scopre?
Oh, andiamo! Ho fatto un errore da principiante assoluta! Vi ho già "telefonato", il finale, no? Scopre cose brutte.
Scopre che il libro, *quello ipotetico*, è un concentrato di tutti i cliché più banali, triti e ritriti da commediola romantica da quattro spicci, frullati insieme fino a ottenere una specie di frappé insulso, una pappetta predigerita. 
Che, alla fine, succede esattamente tutto quello che ti aspetti, ed esattamente quando te lo aspetti. Oh, anche perché te lo aspetti.
E che la lettura come scoperta della storia, ahimé, non è mai stata più lontana.
Intendiamoci, la bibliobulimica si è divertita.
Ma - e qui sta il colpo di scena, non molto originale, per la verità, ma non mi è venuto di meglio - si è divertita perché si è trovata di fronte qualcosa di totalmente sconclusionato e a tratti balordo.
La nostra *ipotetica* bibliobulimica non ha riso con il libro. Ha riso del libro.
Ha riso di una protagonista che continua a ripetere di essere superintelligente - senza mai dire o fare qualcosa che sia  effettivamente tale (o anche solo un minimo furbo) - e di un protagonista la cui unica qualità è l'essere bello.
Ha riso della goffaggine di certe scuse, delle situazioni - familiari e confortevoli come un vecchio paio di ciabatte -, perché è ovvio, l'abbiamo visto in migliaia di film, che, prima o poi, due con una tensione sessuale inespressa finiranno per dividere il letto, ma senza fare niente (sennò che tensione sessuale è?).
E ha riso - sì - anche della scrittura, condita da errori insulsi, non tanto di grammatica (ogni tanto ci sono anche quelli) - quanto di tecnica. Ha riso di un plot pieno di escamotage francamente cretini, deus ex machina, la cui complessità è a livello della mentalità di una adolescente in preda ai primi turbamenti amorosi. O delle frasi fatte. O delle mitragliate di avverbi in -mente che la lasciano secca.
In teoria dovrebbe funzionare che, leggendo una storia, il lettore si pone delle domande. E che, a un certo punto, a queste domande viene data risposta. Non sempre, eh. Solo che quando un lettore rimane con un interrogativo irrisolto, si gratta come se avesse un brufolo dove non batte il sole. E questa *ipotetica* bibliobulimica inizia a grattarsi manco avesse l'orticaria: qui, nella *ipotetica* storia della *ipotetica* bibliobulimica e di questo *ipotetico* libro, di domande ce ne sono tante. 
Prese tutte insieme sono imbarazzanti come il contenuto della cantina delle care ziette di Arsenico e Vecchi Merletti.
La più ovvia è: perché? Perché proprio quell'*ipotetico* libro? Se è stato premiato quello, la bibliobulimica pensa, figuriamoci il resto...
Ma anche le altre non sono tanto da meno: per esempio, come è possibile una così palese e totale mancanza di una qualsivoglia parvenza di documentazione? O, sempre per esempio, alcune prove di ignoranza. E voglio dire, nessuno di noi sa tutto, ma un testo editato certi erroracci non dovrebbe contenerli.
Perché nel migliore dei mondi possibili questo libro *ipotetico* è stato editato, vero?
Ma la bibliobulimica ha anche la maledetta tendenza a farsi un sacco di altre domande. Domande generali. Domande ingombranti. Per esempio, a chiedersi quale *ipotetico* pubblico resta affascinato da questo *ipotetico* libro. Perché, se è valido il dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei, la bibliobulimica ricava un *ipotetico* quadro di insieme allarmante.
Tipo che la letteratura deve essere semplice, perché le persone, altrimenti, non capiscono.
Deve riproporre schemi banali e ormai decrepiti, tipo il principe azzurro, magari svecchiandolo e riciclandolo come uomo d'affari di indubbio successo.
Deve garantire a chi legge una sorta di straniamento, di fuga dalla realtà, in un mondo perfetto dove tutto è facile, rassicurante e, perché no, romantico. Dove i rapporti d'amore sono burrascosi, ma solo perché così è meglio quando finalmente si fa la pace. Dove non esistono la noia, la routine, la quotidianità dei rapporti, ma solo la fase - vagamente lisergica - dell'innamoramento. Dove tutti sono belli, e giovani, e vincenti. Dove cambiare te stessa è facile, rapido e indolore: ti basta tingerti i capelli, infilarti un vestito sexy - che ti starà benissimo, perché non ci sono rotolini di ciccia - e sfoggiare un tacco dodici sul quale avanzerai leggiadra fin dalla prima volta, senza sembrare la versione femminile del mostro di Frankenstein. E dove, grazie a questa metamorfosi, riuscirai a tirare fuori la bellezza interiore. A essere la donna che vorresti. Il che la porta dritta dritta a domandarsi perché le persone vogliono fuggire.
Ma non spaventatevi, eh, per fortuna questo quadro d'insieme è solo *ipotetico*.

venerdì 9 agosto 2013

Il delirio di agosto.

Ad agosto stai tranquilla, dicevano.
Ad agosto non lavora nessuno, dicevano.
Dieci anni di professione hanno dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che le due affermazioni precedenti sono false. Ma non false così, FALSE tutto maiuscolo.
Puntuale è arrivato il delirio agostano: gente che si sveglia e decide che deve avere subito - e sottolineo subito! - il permesso di costruire, altra gente - stavolta nei comuni - che non guarda le pratiche per mesi e il nove agosto si sveglia e chiede una filza di integrazioni lunga chilometri per lavori che: 1. sono già pagati e da quel dì; 2. sono di importanza ridicola, ma - a parer loro - vanno trattati come fossero invece insediamenti strategici (tipo, fai un deposito attrezzi due metri per due e lo devi trattare come fosse un grattacielo).
Same as ever, ve l'ho detto.
Quanto a me, la prendo zen per quanto mi è possibile (oh, va bene, lo ammetto, non è vero! oggi sono zen perché ieri ho sbroccato urlando quando ho appreso che il diciannove agosto io sarò a fare delle prove per una relazione che va consegnata il 20).
Il fatto è che il 21 non posso consegnare.
Dopo tre anni di ferie mancate, perché "eh, tanto qui c'è il mare, quindi va bene lo stesso", io e la dolce metà il 21 agosto leviamo le tende. Ci sarà anche il mare - e bello, se vai nei posti giusti - ma sapete cosa succede, se rimango qui? Succede che vado in ufficio. Perché squilla il cellulare e c'è da fare. E va bene che nella libera professione i lavori si prendono quando ci sono, ma se vado avanti in questo modo fondo sul serio.
Quindi noi il 21 agosto andiamo a Venezia. E ci imbarchiamo. Perché ce lo meritiamo, perché ce lo siamo guadagnato e perché se proprio devi fare una cosa, allora falla bene e quindi... crociera. Dieci giorni nel Mediterraneo Orientale.
Inutile dire che sto contando i giorni (e ho ancora tantissime cose da fare).

La foto viene da qui

sabato 3 agosto 2013

Sulla pelle viva

Quando ero piccola, fino a circa, boh, undici-dodici anni, passavo almeno quindici giorni d'estate a Calalzo di Cadore.
Il viaggio era lungo, l'aria condizionata ancora da venire e stare in macchina con due bambini piccoli - e inclini a litigare - non doveva essere facile. Una delle cose che ricordo bene era mia mamma che diceva: "Dai dai, che ora arriva la diga!". Io e mio fratello ci attaccavamo, non senza sgomitare, al finestrino di sinistra. Con il passare degli anni, la cosa si era evoluta in: "Mamma, ma quanto manca ancora per la diga?"
Quello scudo chiaro, lassù in cima, che sembrava appeso alle montagne in modo così precario ci affascinava. E nessuno di noi si chiedeva come mai Longarone fosse così diverso dai paesi cadorini. Vajont era un nome, il nome della diga, nient'altro.
Sono passati gli anni, abbiamo smesso di andare a Calalzo (quantomeno, tutti e quattro, i miei ci vanno ancora) e io, onestamente, alla diga non pensavo più.
Fino alla sera del 9 ottobre 1997 quando Rai2 trasmette Racconto del Vajont, il monologo di Marco Paolini. Ne rimaniamo colpiti tutti, in particolare io e mio padre. Esce il libro di Paolini. Lo compriamo. Ed è a quel punto che scopriamo che esiste un altro libro sul Vajont.
Un libro scritto - nel 1983, a vent'anni dalla tragedia e all'indomani della conclusione del processo in Cassazione - da una giornalista, Tina Merlin, la prima a denunciare, quando ancora la diga era in costruzione, che sarebbe accaduto qualcosa di tragico. Che il monte non era sicuro. Che la vita delle persone veniva messa in pericolo per una mera questione di interesse economico.
Quel libro è Sulla pelle viva.
E ora, se siete furbi, andate a cercarlo e ve lo leggete. Lo leggete tutto. Note incluse, perché sono fondamentali.
Scoprirete che nulla è cambiato, dagli anni Trenta ad oggi. Che la politica e gli interessi economici si scambiano favori e si danno pacche sulle spalle, facendo i propri comodi e calpestando le persone.
Scoprirete che c'erano state avvisaglie di instabilità già durante le fasi di costruzione. 
Scoprirete che gli esperti della commissione di collaudo ministeriale si sono fatti mandare le relazioni dalla SADE - la società privata proprietaria della diga fino alla statalizzazione - perché il Vajont l'hanno visto poco e male, impegnati in pranzi e cene a Venezia.
Scoprirete che chi all'interno delle istituzioni ha cercato di vederci chiaro e fare il suo lavoro bloccando il cantiere - che è ancora privo del permesso di costruire! - è stato trasferito, così, da un giorno all'altro, in un'altra sede.
Scoprirete che ci sono state simulazioni con un invaso in scala al Centro Modelli Idraulici di Nove a Vittorio Veneto e che si è evitato di simulare lo scenario peggiore, una frana unica, preferendone una in due tempi, e di volume decisamente inferiore - 40 milioni di metri cubi, inizialmente, 200 milioni, poi -, a fronte dei 300 milioni effettivi. E che la velocità stimata di movimento si rivelò essere un terzo di quella effettiva.
Scoprirete che la relazione del professore universitario che descriveva le disastrose conseguenze di una frana in due tempi di 200 milioni di metri cubi, compreso il pericolo per la vallata, è stata insabbiata in un cassetto e non è stata trasmessa al Ministero.
Scoprirete che questa simulazione stabiliva la quota di sicurezza a 700 m e ricordiamoci bene che si erano prese in considerazione le ipotesi più convenienti. E che, al momento del disastro, si stava tentando di scendere a 715 m, perché la quota di massimo invaso era 722.5 m.
Scoprirete quel che successe dopo il disastro, ai sopravvissuti. Non sarà una scoperta piacevole.
Assisterete impotenti alla strenua resistenza degli abitanti di Erto e Casso, due frazioni della vallata del Vajont, che tentarono, senza riuscirci di fermare la corsa alla costruzione. E se vi ricorderanno le lotte dei No-TAV, beh, avrete ragione.

Inizia l'ultimo giorno. Il 9 ottobre 1963 è una stupenda giornata di sole. Di questa stagione, la montagna è splendida, rifulge di caldi colori autunnali. La gente di Casso va e viene ancora dal Toc, portando via dalle case e dagli stavoli più cose possibili. Ma altra gente non vuole abbandonare le case e i bene malgrado l'avviso fatto affiggere dal Comune, pressato dalle richieste provenienti dal cantiere... 
[Viene la sera] e la gente, adesso, è tutta nei bar a vedere la televisione. sono ancora pochissimi i televisori privati e, in eurovisione, c'è la partta di calcio Real Madrid - Rangers di Glagow. Due squadre molto forti, una partita da non perdere. E infatti molta gente è scesa dalle frazioni a Longarone, e anche da altri paesi della valle, per godersi lo spettacolo nei bar. La gente si diverte, discute, scommette sulla squadra vincente.
Sono le 22.39.
Un lampo accecante, un pauroso boato.
Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d'acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull'abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga, un'altra ondata impazzisce violenta da un lato all'altro della valle, risucchiando nel lago le frazioni di San Martino e Spesse.
La storia del "grande Vajont", durata  vent'anni, si conclude in tre minuti di apocalisse,
con l'olocausto di duemila vittime.

(Tina Merlin - Sulla pelle viva)