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giovedì 2 gennaio 2020

Buoni propositi per l'anno nuovo.


Beh... che dire?
2020
Dall'ultima volta qui è passato un sacco di tempo e sono successe un sacco - ma davvero un sacco! - di cose.
In pratica, mi si è stravolta la vita (in meglio).
No, nessun altro pargolo (Davide, che è meraviglioso, adesso ha quattro anni, la passione per i gatti e le pale eoliche e un sacco di opinioni ben precise, basta e avanza!), ma...
- ho cambiato lavoro: ora sono dipendente in un ente statale... a Genova. Ciao ciao libera professione, ciao ciao partita IVA. Tutte le mattine alle cinque e un quarto la sveglia suona e io inizio la trafila (due autobus e un treno) per arrivare al lavoro. Quando finisco, affronto il percorso inverso (tre treni in tutto) per tornare a casa. Amo moltissimo il mio lavoro, ho dei colleghi fantastici (sì, adesso ho anche dei colleghi!), ma devo dirlo: Trenitalia è la dimostrazione che la realtà supera la fantasia, soprattutto quella più orrida;
- ho cambiato casa, anzi, abbiamo comprato (e ristrutturato) una casa. Il risultato? Sono diventata una maniaca dell'ordine e del pulito, preparo dolci e stiro perfino, il mio compagno ancora non si capacita;
- leggo un mucchio (bene), scrivo pochissimo (male) e ho sviluppato una seria dipendenza da k-drama. E quando dico seria intendo 'ben oltre il limite dell'ossessione'. D'altronde, ho tre ore di treno al giorno da occupare.
Comunque, come da titolo, ho deciso di riprovarci e di farlo iniziando con i buoni propositi dell'anno.
No, questa volta niente 'perderò dieci chili', né 'la smetterò di mangiare Nutella' (tanto non lo faccio).
Quest'anno, mi limiterò a un solo proposito: quello di risparmiare. E per farlo, ho investito dodici euri in questo:
Si chiama Kakebo, è giapponese e ti dovrebbe aiutare ad evitare di spendere i soldi in... vogliamo dirlo? Scemenze.
È una specie di registro nel quale annotare - a penna e senza barare! - sia le proprie entrate che le proprie uscite, suddivise in fisse (da inserire nel prospetto all'inizio del mese) e in variabili. A loro volta, le variabili sono classificate in 'di prima necessità', 'optional', 'libri, cultura e tempo libero' e 'spese mediche e imprevisti'.
Ogni mese ha una pagina iniziale, nella quale si inseriscono le entrate e le uscite fisse. Una semplice sottrazione ti dà già la misura di quanti soldi hai a disposizione. Hai uno spazio dove annotare come pensi di risparmiare... e quanto vorresti risparmiare.
Poi ci sono i prospetti settimanali (che dovrebbero essere compilati quotidianamente, meglio se a sera. Il minimo sindacale è almeno due volte a settimana).
Si devono classificare i vari importi, facendo attenzione anche ad annotare se si sono usati contanti o carte di credito.
E si devono fare le somme, quindi si è obbligati a rendersi conto di quanto si spende e come.
Ad esempio, la colazione al bar ogni mattina mi viene a costare - in media - oltre 60€ al mese. Evitabilissimi, visto che ho preso l'abitudine - il venerdì - di fare un dolce tipo ciambellone o plum cake per la colazione di Davide: me ne taglio una bella fetta e poi, complice un pratico thermos (regalo di Natale ad hoc di mio cognato), mi porto dietro pure il mio infuso preferito.
E gli abbonamenti? Fra Kindle Unlimited, Amazon Music Unlimited e Audible se ne andavano altri 30€... per qualcosa che non uso. Perciò, ci ho dato un taglio: tutti via. Beh, non proprio tutti, in realtà: Netflix e Prime li ho tenuti. Ci ho riflettuto, ma Netflix lo uso parecchio e anche Prime mi è utilissimo in periodi di regali (Natale, compleanni e festività varie), senza contare che Davide adora i cartoni che ci sono su Prime Video.
E poi c'è il capitolo 'pasti'. Per ovvi motivi, pranzo fuori tutti i giorni e, anche se ho dei buoni pasto, ci rimetto sempre su qualcosa (e non sto parlando solo di soldi, ma anche di chili). Perciò, a meno di circostanze eccezionali, d'ora in avanti mi preparerò la gamella a casa e basta con panozzi, hamburger e ristorante cinese.
Per il resto, a parte una follia natalizia (se vuoi dei bei regali, fatteli da sola) che ho covato per anni e che è arrivata oggi (yay!) e che aspettavo con ansia, non ho grosse spese in termini di vestiario e scarpe (non sono meravigliosamente belli? sono durissimi e mi distruggeranno i piedi, ma che spettacolo!).
Mi terrò alla larga da Kiko (potrei aprire un franchising con tutti i cosmetici e gli smalti che ho) e pure dagli ebook. Sì, dagli ebook: prima si finisce quello che ho già nel Kindle e poi si parla di acquistare cose nuove (comunque adesso sto leggendo un cartaceo, Manchu Palaces di Jeanne Larsen. Quella donna è un genio, potrei farci un post, prossimamente).
In sostanza, questi sono i miei buoni propositi, questa sono io e mi sa che sono tornata!

venerdì 18 dicembre 2015

Waiting for Star Wars...

Sono una fan da quando avevo, boh, forse dieci anni.
Li ho visti, rivisti e riguardati dozzine di volte, i primi tre film.
Pure in lingua originale, che a un certo punto volevo sentire le voci vere.
Sono una di quelle che 'la seconda trilogia non esiste, è un'illusione delle nostre menti malate'.
Una quindicina di anni fa, al fidanzato dell'epoca, intenzionato a regalarmi un anello, ho risposto che si tenesse l'anello, io volevo un modellino del Millennium Falcon. Ce l'ho ancora.
Una delle mie magliette preferite ha uno Yoda (versione Lego) con la spada laser e la scritta "Judge by my size do you?". La spada laser brilla al buio.
L'anno scorso, ad Aix en Provence, mi sono imbattuta in un coro a cappella che ha eseguito l'intera colonna sonora... e io conoscevo ogni brano e sapevo esattamente cosa succedeva sullo schermo quando veniva suonato.
Lo sapete? Mi è pure scappata la lacrimuccia.
Ho il libro di George Lucas - Oscar Mondadori edizione 1977 - dal quale è tratto Episodio IV. Lo tengo come un oracolo, che l'hanno ristampato per via del film, sennò col cavolo.
Ho riguardato il secondo trailer millemila volte, esultando al "Chewie, we'ere home".
Ogni.Santa.Volta.
Da quattro giorni a questa parte mi tengo lontana dalla rete (lavoro, blog e acquisti di Natale a parte) per evitare spoiler.
Sabato farò la madre degenere. Lascerò a casa Davide con suo papà: alle 17.30 poserò le chiappette nel mio posto prenotato e mi godrò lo spettacolo.
Indovinate che maglietta mi metterò.

mercoledì 4 marzo 2015

Dieci giorni senza televisione

Non prendetemi per luddista, ma, se proprio ve la devo dire tutta, per me la televisione è il male.
Quell'invadente chiacchierona sempre accesa, nemmeno fossero le pareti animate di Fahrenheit 451, con il suo attrarre l'attenzione su questioni di importanza quantomeno discutibile o il suo inocularci pubblicità, più o meno occulta, ad ogni pié sospinto... la detesto.
La religione è l'oppio dei popoli, diceva Marx.
Mi domando cosa penserebbe, il barbuto, della televisione.
Magari non è proprio l'oppio dei popoli, ma ne è, almeno, il Valium.
E siccome io Valium anche no, grazie (men che meno ora), e il mio compagno è come me, in casa nostra abbiamo una sola tv.
Basta e avanza. Soprattutto, avanza.
E abbiamo avuto modo di scoprire quanto.
A un certo punto, circa dieci giorni fa, ha iniziato a dare i primi sintomi di autocoscienza, spegnendosi e accendendosi da sola. Speravo in Skynet, invece era solo un guasto, e, datosi che è pure in garanzia, l'abbiamo portata in assistenza.
Ovviamente, provata in negozio, ha smesso di farlo e, da brava stronza, si è comportata in modo lodevole.
Che a una viene un dubbio legittimo: ok, Skynet no, ma magari i poltergeist?
Insomma, fatto sta che, su richiesta del mio compagno, il riparatore se l'è tenuta dieci giorni, in attesa che si decidesse a funzionare male.
Lei, casomai ve lo chiedeste, non ha funzionato male.
E noi? Noi siamo rimasti senza.
Credo che, oggigiorno, una casa priva di tv sia piuttosto insolita. Che sia per guardare un film, sentire qualcuno parlare, o perché (somma tristezza) davvero interessa la spazzatura di cui sono inondati i canali, la tv c'è ed è funzionante.
Quindi... come si sta senza televisione per dieci giorni?
Bene. Anzi, benissimo.
In primo luogo, sembra banale, ma si parla di più. Noi abbiamo la tv e il tavolo in salotto, quindi, mentre si mangia, quella è accesa. Senza quella, si parla.
Poi, si ascolta più musica. Nei dieci giorni trascorsi, abbiamo sperimentato diversi generi e scoperto che Davide, a quanto sembra, apprezza la classica e il blues. Caprioleggia a non finire. Molto meno - con sommo rammarico della dolce metà e mio segreto giubilo - il metal, accolto con sdegnosa indifferenza.
Inoltre, senza quell'irritante chiacchiericcio, la casa diventa più rilassante.
Ora, c'è da dire che né io né il mio compagno siamo appassionati di qualche trasmissione particolare - non è che ci strappiamo i capelli se non riusciamo a vedere la finale di Masterchef, per esempio - però ho scoperto che anche quel che in genere guardo volentieri (soprattutto su Focus) non mi è mancato quanto pensavo.
Non mi è mancato affatto.
Certo, internet e i computer hanno dato una grossa mano, garantendoci comunque la possibilità di guardare film e serie che ci interessano (roba che in tv non ci andrà mai e, se ci andrà, sarà con un doppiaggio orrendo).
E poi, ovviamente, ci sono i libri. Passo molto più tempo a leggere che non a guardare la tv (e dovrei anche scrivere, maledizione!). Se mi dovessero togliere il Paperwhite o l'accesso alla libreria sì, che sarebbero pianto e stridor di denti!
In definitiva, senza tv si sopravvive - e pure bene.
Un'informazione che metto da parte per tirarla fuori al momento opportuno... e cioè quando si tratterà di insegnare a Davide che c'è un mondo molto più interessante, fuori da quella specie di scatola!

martedì 27 gennaio 2015

Gattoverso

Ogni scarrafone è bello eccetera eccetera e questo vale per i bambini e, ho scoperto, pure per i pelosi di casa.
Nel mio caso, il peloso è una gatta. (Non che non mi piacciano i cani, ma ho un debole per lo spirito indipendente e la verve dei gatti!)
Non vi capiterà mai di parlare con l'orgoglioso proprietario - che poi, sul chi appartiene a chi discutiamone - di un felino senza sentirvi dire che come l'amato cucciolo di casa (sono sempre cuccioli, anche quando il tempo passa) proprio al mondo guardi signora non ce n'è.
Non faccio eccezione neanche io, intendiamoci.
Ma a un certo punto... chissenefrega?
La Mina è in casa nostra da quasi un anno - dieci mesi, più o meno - e, senza essere retorica, ci ha cambiato la vita.
Mi ha cambiato la vita.
Questa è una delle cose che chi non ha mai avuto un animale - e io, a parte una tartaruga e un gatto "da cortile" quand'ero piccola, facevo parte della categoria - proprio non capisce.
Il motivo per cui il non-proprietario rimane basito quando, per ipotesi, sente parlare di "spese per il veterinario", specie se si tratta di un non-proprietario convinto che "le bestie si curano da sole" (grossa vaccata, peraltro), oppure quando dici che no, il cibo da supermercato se lo tengano, grazie, tu al peloso compri roba di qualità perché le marche più popolari sono anche quelle piene di appetizzanti e con un apporto di nutrienti del tutto sballato e a lungo andare causano problemi renali.
Eppure, è così.
Io so che quando arrivo a casa, che sia stata una giornata buona o cattiva (e a maggior ragione quand'è stata cattiva), il miagolio di saluto e le fusa mi rimettono in carreggiata. E che anche nei momenti neri lei riesce a strapparti il sorriso e ad alleggerire l'atmosfera e non le ci vuole mica tanto: le basta un sacchetto, o una pallina, o un nastrino, oppure un topo finto.
So che stare sul divano a leggere è più bello se lei, dopo aver giocato, arriva, ti salta in braccio e, tutta fusacchiante, si mette comoda e si rilassa sulle tue gambe.
Ed è incredibile come sappia farsi capire quando vuole qualcosa, che sia cibo, coccole, giocare o, semplicemente, che le venga aperta la porta del terrazzo perché le va di andare fuori a prendere un po' di sole e a stalkerare dall'alto la gente che passa nel cortile.
E adesso che dormo poco - perché tocca mettersi su un fianco e tenere sollevate le gambe ed è di una scomodità assoluta o perché, eh, la natura chiama e pure spesso - quando mi sveglio, lei è lì, un piccolo corpo caldo e peloso, che solleva il musetto, si stiracchia, sbadiglia e inizia a ronfare come un motorino. O che, se devo andare, mi accompagna in bagno andata e ritorno, salta sul letto, si fa fare due coccole sempre ronfando e poi si acciambella e rimette a dormire, ben appiccicata al mio fianco.
Perché non sia mai che non mi stia attaccata: mi segue dovunque io vada, mi aspetta se ho da fare - ma miagola se ci metto troppo e non la considero abbastanza -, si mette sul bracciolo del divano accanto a me se sono seduta a tavola e, se sto mangiando, aspetta che abbia finito di fare quel che sto facendo, perché sa che quando c'è apparecchiato si sta al proprio posto (se invece sto scrivendo è una lotta senza quartiere perché vuole i fogli, vuole la penna, pensa che la tastiera sia una promenade e cose così).
Sono convinta che sia stata la prima ad accorgersi che ero incinta, perché, di punto in bianco, ha iniziato a venirmi a impastare sulla pancia, giusto nei giorni in cui probabilmente Davide è stato messo in cantiere, quando non l'aveva mai fatto prima.
E la panza è al centro delle sue attenzioni: ci si appoggia contro, ma sa - lo sa! - che non deve salirci sopra, ci fa le fusa (e Davide, se è sveglio, calcia in risposta) e ogni tanto la annusa, strusciandoci contro la testina.
Quando sono dovuta stare a letto per una settimana, prassi comune dopo aver fatto la villocentesi, ha passato ore accanto a me... aspettando che fosse Simo a rientrare, la sera, per chiedere di giocare.
Poi, è un gatto e come tale predisposto a rompere le scatole quando vuole qualcosa (e lei è particolarmente sfinente quando ci si mette), ma per me questo non è un difetto: è un valore aggiunto.
Si chiama personalità e lei ne ha da vendere!
Lo è anche per Simone, che inizia lamentandosi, ma di fatto ne è deliziato e finisce per obbedire alla gatta.
Lei miagola, lui le fa il verso... e inizia una strana conversazione a due in una lingua tutta loro. Con Simo che prova a fare versi e la gatta che lo imita con precisione straordinaria: tono, durata eccetera.
Sembrano storie, ma sono vere.
Dicono che i gatti siano opportunisti. Che non gliene importi nulla dell'umano se non in quanto fonte di cibo.
Ecco, secondo me chi fa un'affermazione del genere non ha mai avuto a che fare con un gatto. Forse con i cani. Al massimo, un pesce rosso.
I gatti sono diversi e vanno lasciati liberi di essere quel che sono. Se pretendete una dipendenza assoluta, fate un bel lavoro, prendetevi un cane. Anzi, meglio, lasciate stare pure quello, perché gli animali non devono essere adottati - tantomeno comprati! - per gratificare l'ego del padrone facendolo sentire indispensabile.
Ma se volete un gatto e volete instaurare con lui un bel rapporto, cominciate a pensare come un gatto.
Rispettate i suoi spazi, imparate a leggere i suoi segnali: vi farà capire quel che gli piace e quel che non gli piace. E più lo rispetterete, più imparerà a fidarsi di voi e vi ripagherà con un affetto che non ha eguali.
La Mina era una gatta di strada. Una signora l'ha trovata che miagolava disperata, nascosta sotto la sua auto, una sera di febbraio dell'anno scorso, durante un acquazzone. L'ha presa con sé, l'ha fatta curare e sterilizzare (e sottolineo a sue spese, perché non sono tante le persone generose che farebbero altrettanto) e le ha cercato una famiglia perché non poteva tenerla, visto che l'altra sua gatta proprio non la accettava.
L'ha data via con le lacrime agli occhi e mi ha confessato che, se non avesse trovato nessuno, di certo non l'avrebbe rimessa in strada: l'avrebbe tenuta, a costo di dover vivere con una gatta in cucina e una in camera per evitare incontri di lotta libera.
Mi piace pensare che la Mina abbia chiesto disperatamente aiuto e che qualcosa - o qualcuno - lassù l'abbia sentita. Poteva non succedere e l'alternativa mi gela il sangue.
Ma è successo. A volte si chiede e si riceve e questo è, per me, un piccolo miracolo che mi infonde speranza ogni volta che ci penso.
E poi sono arrivata io.
Si potrebbe pensare che io abbia fatto tanto: l'ho adottata e lei ho dato una bella vita (e lo è, perché non le manca niente, né a livello di affetto né a livello di cure e lei dimostra ogni giorno di essere una gatta felice).
Ma sapete una cosa? A paragone di quel che lei dà a me, è nulla. Mi ripaga ogni giorno, ogni minuto, con un affetto e una dedizione che non hanno prezzo perché rende la mia vita migliore.



giovedì 17 luglio 2014

L'importante è non sentirli

L'altro ieri ho compiuto gli anni. Mi sono presa una giornata di stacco totale al mare, quindi avevo mentalmente rimandato questo post a ieri. Solo che ieri sono stata tutto il giorno a un terrificante corso di aggiornamento (a metà fra Operazione Geode e la gita aziendale di Fantozzi) del quale mi ero completamente dimenticata.
Così sono finita a oggi.
Io e la mia età anagrafica non siamo mai andate d'accordo. Un matrimonio difficile, il nostro: lei continua ad aumentare e io mi oppongo.
Ho sempre pensato che questo non andasse affatto bene: che il distacco fra età anagrafica ed età mentale fosse qualcosa di profondamente negativo.
Voglio dire, a trent'anni mia madre aveva già due figli ed era una persona con la testa sulle spalle e che di certo non si perdeva in storie né leggeva fumetti, né (tantomeno!) guardava cartoni animati. Mio padre, idem.
E quando constatavo quanto diversa fossi da quel che loro erano alla mia stessa età mi sentivo inadeguata. Colpita senza rimedio da sindrome di Peter Pan.
Finché dai venti si passa ai trenta, non è poi 'sto gran problema (o almeno non mi sembra tale ora). Il fatto è che, adesso, i quaranta sono dietro l'angolo. E la discrepanza età anagrafica/mentale è sempre lì.
Ci ho rimuginato in solitudine per un po', poi ho dato voce al disagio con il mio compagno. E gli ho detto che i miei anni non me li sento.
Lui si è girato verso di me, con la faccia di uno che ha appena sentito l'ovvietà del secolo, e mi ha risposto: "Guarda che il problema è quando te li senti."
E ha ragione.
Sono diversa da com'erano i miei alla mia età. Prima mi sembrava brutto. Qualcosa di cui vergognarsi.
Oggi posso dire che ne sono fiera.
Ho trentotto anni e mi piace leggere letteratura fantastica. Non mi sento scema per questo. Mi piace anche scriverla e non ho intenzione di smettere. Come non ho intenzione di smettere di guardare film di genere fantastico, di leggere manga o di essere nerd. Come non ho intenzione di smettere di sognare, di chiedermi "cosa succederebbe se?" e inventare storie per rispondere.
Questa sono io. E vado bene così.

L'immagine è presa da qui



mercoledì 25 giugno 2014

Bruci le mie bussole...




A volte, durante delle sequenze asana in particolare, il maestro che ti guida ti chiede di sentirti "grato".
Come ho detto nel post sullo yoga, lo stato emotivo è importante quanto quello fisico, durante la pratica.
Quando fai il Saluto al Sole, per esempio, la disposizione d'animo è quella di essere grato al sole per la luce e l'energia che danno la vita. Ci sono sequenze che hanno come scopo la rigenerazione e la rinascita - una è il Saluto alla Luna - nelle quali si dovrebbe essere grati a se stessi.
A me, però, la gratitudine non è mai riuscita, specie quella verso me stessa. Livia, la mia insegnante, dice 'sta cosa della gratitudine e io, immediatamente, penso dentro di me: "grata a chi? a me stessa? e per cosa? ma guardami!"
Altro che gratitudine! Lo schifo misto ad irritazione e insofferenza. Di solito, succede che arrivo - a tempo di record - in quello stato d'animo in cui mi prenderei a ceffoni.
Fino a ieri.
Come al solito, inizia tutto a partire da una roba stupida o insignificante. Nel mio caso, dall'autoradio. Perché ieri ero in macchina, il tragitto era abbastanza lungo, avevo l'autoradio accesa, stavo cantando (e non sono granché come cantante, anzi, sono proprio scarsa) e mi accorgo di una cosa: che sto usando il diaframma. Per la prima volta nella mia vita, non sto cantando di gola.
A fare due più due ci ho messo un attimo: la respirazione. Ho imparato a usare il diaframma per respirare, così adesso mi viene naturale usarlo anche per cantare. Non è poco: cantare è una delle cose che mi piacerebbe saper fare e per le quali sono negata.
Così ho iniziato a pensare a quello che è cambiato, a quello che sta cambiando... e, sì, mi sono sentita grata a me stessa.
Non la gratitudine solo positiva che vedi nei film e leggi nei libri, no. Una gratitudine velata d'amaro, perché starò anche percorrendo una strada un passo alla volta (e di questo non devo dire 'grazie' a nessuno ma solo a me), perché sto testando le mie forze e scoprendo che ci sono, perché è qualcosa di unicamente mio, perché la tendenza all'inazione regredisce - ringhiando e soffiando, ma regredisce -, insomma, un sacco di perché positivi... ma è comunque un percorso che ha dei lati oscuri, spaventosi e dolorosi.
Però sì, sono grata a me stessa. E questo tipo di gratitudine sembra più vero, di quella patinata che ho cercato di evocare invano per mesi.
Così, eccomi qua, un altro passetto fatto. E c'è un pensiero rivoluzionario che mi frulla in capo da un po': magari, perdere il controllo non è tutto 'sto gran male.
Magari è divertente. Di sicuro è un'avventura. Forse vale davvero la pena di bruciare le bussole...

martedì 24 giugno 2014

Vi lascio una canzone


Per stupido che possa sembrare, non ho mai compreso questa canzone bene come in questo periodo. Quindi, la condivido. Siate felici per me.


Heaven out of Hell

So are you turning around your mind
do you think the sun won't shine this time
are you breathing only half of the air
are you giving only half of a chance
don't you wanna shake because you love
cry because you care
feel 'cause you're alive
sleep because you're tired

make heaven, heaven out of hell now ...

are you locked up in you counting the days
oh how long until you have your freedom
just shake because you love
cry because you care
feel 'cause you're alive
sleep because you're tired
shake because you love
bleed 'cause you got hurt
die because you lived

make heaven, heaven out of hell now ...

are you still turning around the same things
are you still trying that way
are you still praying the same prayers
are you still waiting for that same day to come

climbing the same mountain
you're not getting higher
you're running after yourself
can't let go
hiding in that place you don't wanna be
you push happiness so far away
but it comes back
to give you all that you've given before
to love you the way that you do, like a mirror
look in the air 'n catch that boomerang
can't fall anywhere else but in your own

and make heaven
heaven out of hell now
make heaven
heaven out of hell now...
make heaven heaven out of hell now
make heaven
heaven out of hell now
are you still waiting
make heaven
heaven out of hell now
are you still praying
make heaven
heaven out of hell now
are you still losing
make heaven
heaven out of hell now
make heaven
heaven out of hell now
I wanna fly because
I dream
dream
dream 

lunedì 23 giugno 2014

Yoga

Alla fine di settembre del 2013, a un mese esatto dal mio rientro dalle ferie, ero di nuovo punto e accapo: stress a livelli di guardia, notti insonni passate a fare conti (la gente non pagava e avevo parecchie spese da sostenere) e un diffuso senso di fallimento che mi avvelenava la vita.
Perfino di scrivere proprio non se ne parlava. Posso anche fare finta che non mi importi della scrittura, ma la verità è che non riuscire a produrre nulla contribuiva a ridurre ai minimi termini la mia già scarsa autostima.
Tutto il bene che avevo tratto da dieci giorni di crociera se n'era andato in un lampo giù per il gabinetto e la mia vita era di nuovo sui binari per Depressione di Sotto - abitanti:1 (la sottoscritta).
Mi guardavo intorno e tutto quel che vedevo era gente più realizzata, più soddisfatta e più felice di me. Gente che aveva quel che io desideravo e non riuscivo ad ottenere.
Non è che questo mi rendesse una compagnia piacevole.
Stava andando a rotoli tutto quanto. Stavo andando a rotoli io.
Volete sapere la cosa peggiore? Ne ero perfettamente cosciente e non muovevo un dito. 
Ma non riuscivo a trovare l'energia per fare qualcosa. Proprio come una medusa - una medusa molto stanca e svogliata - galleggiavo, lasciandomi trascinare dalla corrente (riservandomi, però, il diritto di lamentarmi del dove mi portava). 
Il guaio dell'inazione è che è così terribilmente comoda. 
È come un paio di ciabatte sformate, che ormai sono adattate ai tuoi piedi. A tutti piace un bel paio di ciabatte comode, per stare in casa. Il problema era che, metaforicamente, io le usavo anche per uscire con la motivazione 'sono così comode, perché dovrei fare la fatica di mettermi un paio di scarpe?'. E, in ogni caso, uscivo (sempre metaforicamente) il meno possibile perché 'è così comodo stare in casa, perché dovrei fare la fatica di uscire?'
È un circolo vizioso. Non devi fare nulla: non devi pensare, non devi impegnarti, non devi impiegare alcuna energia. Ti limiti a respirare e lasciare che le cose vadano da sé. Il rovescio della medaglia? Ansia e insoddisfazione, ma delle volte è un prezzo che sei disposta a pagare.
È un semplice bilancio costi-benefici. A volte, il non impegnarsi vale bene un po' d'ansia.
Non questa volta. Questa volta il non-impegno mi stava costando caro.
Ci sono dei momenti in cui capisci di essere arrivata a un bivio e di dover prendere, per forza, una decisione, in un senso o nell'altro. Per me, uno di questi momenti è stato a settembre del 2013.
In un modo confuso, ma pressante, capivo che avrei dovuto per forza fare qualcosa. E farla subito.
La mia risposta (e non nascondo che mi ci è voluta una spintarella) è stata realizzare un desiderio che avevo da anni e che non avevo mai concretizzato (sempre perché costava fatica): cercare un centro yoga e andare a provare.
A posteriori, posso dire che questo passo, così piccolo da essere insignificante, è stato il primo di un viaggio. Un viaggio che mi impegna ancora adesso. Un viaggio non facile, che mi mette di fronte - sempre - a me stessa e alle mie difese.
Ho delle buone difese, io. Ci ho messo quasi trentotto anni a costruirle. Non sono facili da buttare giù, neanche quando ci provi dall'interno.
Andare in palestra, fare acquagym, correre sono tutte attività che non richiedono nulla alla tua mente. Solo la determinazione di sottoporti a un regime di sforzo fisico. Funzionano bene in caso di stress, perché ti spengono letteralmente il cervello.
Quando finisci di faticare, stai bene: hai un bel po' di endorfine in circolo che zittiscono il chiacchiericcio insistente di problemi e fattori stressogeni. Non li risolvono, non li eliminano, ma per un po' li imbavagliano.
Lo so perché ci ho provato.
L'unica cosa che fanno è crearti una sorta di dipendenza, in senso molto lato: finito di correre stai bene, quindi la sera- o la mattina, o il pomeriggio - dopo ci ritorni.
Fare yoga non è, almeno per l'approccio che adottano nel centro che frequento, semplicemente mettersi lì e cercare di assumere posizioni strane con nomi altrettanto strani. La prima cosa che ti insegnano è che c'è unità fra spirito e corpo: se il corpo ha delle rigidità e delle tensioni è perché il tuo stato emotivo ha delle rigidità e delle tensioni.
Perciò devi chiederti per quale ragione assumi posture sbagliate, oppure somatizzi lo stress a livello di certe parti del corpo (per esempio il collo, lo stomaco, l'intestino): è un viaggio non solo alla scoperta del tuo corpo - e qui ci arrivo fra poco -, ma della tua interiorità. Ti fai delle domande e, inevitabilmente, cerchi le risposte.
I problemi e i fattori di stress non vengono imbavagliati, al contrario: vengono fuori, che tu lo voglia o no. E, all'inizio, propendi per il "no".
L'approccio che lo yoga ha all'attività fisica ha rappresentato forse la prima, grande novità per me. Ho sempre fatto sport - magari malvolentieri, perché sono pigra - ma non ho mai prestato attenzione al mio corpo.
Non ho mai identificato me stessa nel mio corpo, ma sempre nel mio io senziente, nel mio cervello, se vogliamo. Ragion per cui ogni movimento, dal più semplice e spontaneo di tutti, il respiro, a quelli più complessi era svolto del tutto inconsapevolmente. Non prestavo attenzione a come i miei muscoli riuscissero a realizzare  una data cosa, fintanto che portavano a termine il compito che il mio cervello aveva dato loro. Non ero cosciente di come respirassi, né del fatto di contrarre determinate parti - per esempio, le spalle - come conseguenza di uno stato mentale tutt'altro che tranquillo.
Avete mai provato a mettervi scalzi e camminare, prestando attenzione solo al movimento dei vostri piedi? A osservare, a sentire, attimo per attimo, come la pianta e le dita lavorano, come cambia il contatto con il pavimento, come il peso viene ridistribuito e poi passato da un piede all'altro?
Provateci. E vedrete che non sarà facile mantenere l'equilibrio. Eppure camminiamo tutto il giorno, no?
Avete mai provato a concentrarvi sul vostro respiro e a studiare come il vostro addome prima e la vostra cassa toracica poi si riempie e si svuota? Io non ci avevo mai fatto caso. Ancora adesso, gli esercizi di respirazione sono quelli che mi riescono peggio. I primi mesi erano una tortura: a livello del diaframma c'era un blocco, una sorta di saracinesca che mi mozzava il fiato.
E avete mai provato a concentrarvi? A sedervi sul pavimento e guardare, che so, la fiamma di una candela concentrandovi solo su quella? La prima volta il mio cervello ha resistito (forse) trenta secondi, dopodiché si è messo a saltabeccare fra le cose che avrei dovuto fare dopo la lezione e l'indomani, quelle che avrei dovuto dire a tizio (e invece, come una stupida, avevo taciuto), fra i soldi che dovevo assolutamente recuperare... e via così. Trenta secondi di apnea - quindi niente affatto rilassante - e poi la scimmietta ubriaca ha iniziato a dimenarsi.
E avete mai provato coscientemente a sdraiarvi e rilassarvi? Stare lì, fermi, con il corpo morbido e pesante e la mente silenziosa. Non è facile come sembra. I primi tempi, durante la fase di rilassamento, mi contraevo. Uscivo dal centro che ero tutta rigida.
Adesso, dopo otto mesi di lezioni due volte a settimana (avevo iniziato con una volta a settimana, ma mi piaceva tanto che ho aumentato a due), posso dire che qualche passetto avanti l'ho fatto.
Intanto, ho imparato a tenere a bada le mie aspettative. (Più o meno. Avete presente il domatore che tiene a bada i leoni con la frusta? Il livello è quello, ma visto che prima i leoni mi stavano sbranando, lo prendo come un miglioramento.)
Nello yoga c'è osservazione e non giudizio. Ora, immaginate me, con la mia sindrome da prima della classe, se potevo evitare di chiedermi 'sto facendo bene questa asana?', 'sto provando quel che si suppone io debba provare?', 'sento il peso del mio corpo come si suppone che lo debba sentire?', 'sto respirando come si suppone io debba respirare?', 'sono brava?', 'sono più brava?', 'sono all'altezza?', 'perché tutti visualizzano i chakra e io non vedo un tubo?'. Ogni tanto ci ricasco, ma è raro. Sulle visualizzazioni, principalmente. Alcuni dei miei compagni di corso sono molto sensibili, sia alle energie che alle visualizzazioni. Io sono riuscita un paio di volte ad attivare l'energia lungo la spina dorsale - una sensazione stranissima: sei seduta in mezzo alla stanza, eppure senti caldo come se avessi la schiena poggiata a un termosifone bollente - e a vedere qualcuno dei chakra - quelli alti, specie il sesto. Il sesto, il terzo occhio, che sta al centro fra le sopracciglia ed è viola, lo vedo facilmente. I chakra bassi invece nisba -, ma poco altro.
Le prime volte, durante la condivisione finale, mi sentivo in imbarazzo. Poi ho capito che forzare la mano non funziona e mi sono rassegnata a concedermi tempo. Dopo un po', anche questa concessione ha perso significato: io sono quel che sono, quando sarà il momento vedrò.
Le aspettative, quando diventano un cappio, sono una rovina. E io con il mio più-brava-migliore-più svelta-più-realizzata e con la compulsione a dover dimostrare sempre qualcosa a qualcuno, mi stavo strozzando. Se devo essere sincera, sto ancora lavorando per venire a patti con un modo di essere diverso, nel quale queste aspettative così stressanti non ci sono. Hanno sempre svolto funzione di motore - ad alta cilindrata, pure - se le tolgo di mezzo, ho paura di rimanere immobile.
Ho anche imparato a osservare il mio corpo. Non ne sono sempre cosciente 24/7, ma adesso, per esempio, mi accorgo se ho le spalle contratte e sollevate, in una tipica posizione di difesa. E le rilasso. Ho imparato a muoverlo coscientemente e non in modo automatico, a osservare - sia durante la pratica che durante il giorno - quali muscoli sono contratti e quali rilassati.
Lo yoga è un'attività di gruppo solo in apparenza: in realtà è profondamente solitaria e questo è il suo fascino (o quantomeno, uno dei suoi molteplici pregi): sei solo con te stesso.
In silenzio. In quiete. Inizi la pratica e piano piano molli gli ormeggi: non esiste il mondo esterno, non esistono i pensieri, esiste solo il tuo corpo e l'attenzione che dedichi al muoverlo e l'osservazione degli effetti che tali movimenti hanno. Quali muscoli stai allungando, quali stai sollecitando, come viene distribuito il peso, come viene raggiunto (e a volte, ma non sempre mantenuto) l'equilibrio.
Ho imparato - in realtà sto ancora imparando - a stare nel presente.
Non è facile, specie con i ritmi della vita odierna. Siamo sempre proiettati nel futuro e io, con i miei noti problemi di controllo, sono peggio degli altri. Sto sempre a pensare a cosa potrebbe succedere fra un attimo, un'ora, un giorno... tanto che non presto attenzione a quando sono. Lo yoga ti insegna il valore del qui e ora. Stare nel presente ancora mi riesce difficile, specie quando sono sotto stress, ma ci sto lavorando. Ancora una volta, non mi metto fretta e continuo a impegnarmi. In fondo, per dare frutto un albero ci impiega un mucchio di tempo, no?
Ho anche imparato a rilassarmi: non esco più dal centro tutta rigida. La maggior parte delle volte cado dentro me stessa: perdo la sensazione del mio corpo e rimango lì, a galleggiare. Non è male come sensazione.
Non sto dicendo che fare yoga sia la panacea di tutti i mali. Ma è un punto di partenza, o almeno per me lo è stato. Perché mi ha portata ad iniziare un percorso di autoanalisi che continua tutt'ora. A volte è doloroso, a volte è penoso, ma se mi guardo indietro - con tutto che ancora lotto contro l'inazione - vedo che ho fatto un po' di strada.
Se mi confronto con la persona che ero otto mesi fa, posso dire che sono più serena. Non ho risolto tutti i miei problemi, ma li affronto. E non più con la pretesa di una soluzione immediata, stile bacchetta magica. Ma con un obiettivo in mente: migliorarmi.
Diventare un essere umano più sereno, in grado di godersi la propria vita e il proprio tempo come merita di essere goduto, senza ridurlo a una palude d'ansia e frustrazione. Se devo essere sincera, la meta è ancora molto lontana: per certi versi sono peggio di una cozza, io. Sto arroccata nei miei schemi, dietro le mie mura e da lì non mi smuovo. E le mie fobie, quando stuzzicate, conservano ancora tutta la loro potenza. Mi piacerebbe dire il contrario, ma, visti gli ultimi episodi, non hanno ancora perso la loro presa su di me. Però non ho più voglia di subirle. Non sono più così convinta che la risposta giusta sia non ci posso fare niente.
Per adesso, direi che va bene così.

venerdì 13 giugno 2014

Un silenzio assordante

Sono quasi due mesi che in questo blog non si muove una foglia.
La Parietaria è rimasta congelata nel tempo, immobile, in attesa di... non so bene nemmeno io di cosa.
In questi mesi sono successe molte cose: Once Upon A Time è finito senza che io completassi i riassunti, la Mina è diventata la signora della casa e ha pensato bene di farci prendere uno spavento da morire finendo sotto flebo d'urgenza, io continuo a fare yoga e a cercare di venire a patti con una me stessa interiore che è del tutto incontrollabile (la cosa peggiore, per una control freak come me, mi coltivo la serpe in seno. In senso letterale. Forse dovrei semplicemente sedermi a un tavolino con lei e offrirle una birra, giusto per discutere delle reciproche differenze). 
Il lavoro continua a essere scarso e la gente continua a cercare di non pagare.
Continuo a leggere. In effetti, avrei un sacco di libri di cui parlare. Quasi tutti in inglese, va da sé. E ho una lista di lettura in costante allungamento.
E continuo a scrivere e pensare storie. Ho rallentato da quando è arrivata la gatta, perché la sera - il momento che prima era dedicato alla scrittura - adesso è dedicato a lei. Cioé, più che altro se l'è preso, obbligandomi, a forza di miagolii, palline messe in mezzo ai piedi e penne scippate durante la scrittura, a darle retta.  Ho scoperto che i gatti hanno un modo tutto loro di fare sì che le cose vadano come vogliono e, se volete sapere che cosa ne penso... secondo me sono davvero alieni che cercano di dominare il mondo. Perfino a distanza, perfino adesso: comincio a parlare di scrittura e zac! lei scivola quatta quatta nel discorso e ne diventa il centro!
Quindi, torniamo alla scrittura: le idee ci sono. Sono tante. Sono per più storie. La cosa mi entusiasma letteralmente: sembrano zampillare, incastrarsi una nell'altra... è come se stessi componendo diversi puzzle contemporaneamente. Non ve lo nascondo: è fico!
La mia fonte di divertimento principale - quella in piena stesura - ha raggiunto e superato le duecentomila battute. Il conto non è aggiornato, perché la sto scrivendo con carta e penna: niente Scrivener, stavolta, se non a posteriori, giusto per avere una copia di sicurezza. Giro con il manoscritto in borsa, in una busta trasparente che sta cadendo a pezzi, e appena posso vado avanti.
A che punto sono?
Avete presente quando siete sulle montagne russe, all'inizio del percorso, che i vagoncini affrontano lenti la prima salita? Più vi avvicinate al culmine e più anticipate - pregustate - il senso di vuoto nello stomaco e la velocità che vi aspettano di lì a pochi secondi. Io sono a quel punto lì: mi sto approssimando al culmine della salita, sono ormai in cima. I pezzi del rompicapo con il quale la mia protagonista ha a che fare sono stati mostrati (quasi tutti) e fra poco lei inizierà a capire come metterli insieme... e la storia scivolerà a tutta birra verso il rush finale e l'epilogo.
Poi ci sarà un mucchio di lavoro da fare, visto che ho trascurato la documentazione quasi del tutto, ma me ne preoccuperò quando sarà il momento.
Questa è una delle cose che sto - lentamente e con fatica - imparando a fare: preoccuparmi quando serve, non in anticipo (e non solo per quel che riguarda la scrittura).
Non è facile. 
Specie quando hai un cervello che ti propone migliaia di varianti apocalittiche - una peggio dell'altra - di ciò che potrebbe accaderti.
In questi mesi si è messo in moto un processo di ripensamento del mio intero modo di essere. E dico che "si è messo in moto" perché non è nato da un atto di volontà mia. Forse l'altra me stessa - quella incontrollabile - ha qualcosa a che fare con tutto questo, non lo so.
Se fossi un personaggio, si potrebbe dire, in termini manualistici, che il mio sistema di sopravvivenza interiore mostra tutte le sue crepe ed è ora di cambiarlo. Ma non sono un personaggio - anche se potete scommettere che quel che mi sta capitando mi servirà, prima o poi, in una storia - e questa sorta di "revisione" va avanti per conto suo, trascinandomi con sé, volente o nolente - più che altro nolente.
Così, dopo mesi di strappi e bocconi,ho pensato che tanto vale fare un tentativo e smettere di essere la rigida quercia: provare a essere il flessibile bambù, così, tanto per cambiare. 
Per una come me è più semplice a dirsi che a farsi, ma magari mi piace, nella vita non si sa mai.
Comunque, sono tornata. Anche se sto facendomi il tagliando, sono qui.

giovedì 13 marzo 2014

Per capire veramente una donna...

Essere una drogata di lettura vuol dire che leggi qualsiasi cosa.
Le locandine dei giornali, i manifesti pubblicitari, i volantini, le T-shirt della gente, le scritte dei Baci Perugina... insomma, proprio tutto. Anche le scritte sulle borse.
Che è ciò che ho fatto io ieri, quando, alla fermata del bus, mi è cascato l'occhio sulla borsa di una tizia che aspettava ferma vicino a me.
C'era scritto sopra: "Per capire veramente una donna devi guardare cosa c'è nella sua borsa".
Beh, io ho guardato la mia, di borsa.
Primo, era sporca di grasso di motore: il giorno prima ero andata a fare delle prove e non avevo avuto tempo di cambiarla. Per lo stesso motivo dentro c'erano ancora i miei guanti da lavoro. Ma anche un astuccio completo di cosmetici, dal fondotinta alla cipria passando per lo smalto.
Poi c'erano fazzoletti di carta - usati e non -, carte di caramelle (ma niente caramelle, accidenti), l'e-reader e un libro (non si sa mai), mazzi di chiavi che manco San Pietro, la busta trasparente con il mio manoscritto e una penna (di nuovo, non si sa mai), il telefono - onnipresente -, uno spillone per capelli e due elastici, una Tratto Pen e il portafoglio.
Ora, non so, ditemi voi, ma non penso che dalla mia borsa si capiscano cose belle di me.

martedì 10 dicembre 2013

Sono viva!

Ehilàààà!
Sono ancora viva! Lo so che la Parietaria, poverella, è più trascurata del solito - il che è tutto dire - ma... questa volta ho un'ottima ragione per sparire. Diverse ottime ragioni, in realtà.
Come prima cosa, sono nel bel mezzo del trasloco dell'ufficio. 
In questo momento sono ospite nello studio in cui mi trasferirò a pieno titolo da gennaio. Nel vecchio ufficio il riscaldamento non ne voleva sapere di partire e a nessuno pareva importare nulla.
Così, visto che me ne hanno dato la possibilità, ho preso baracca e burattini (al secolo, pc, due monitor e la stampante ink jet - la laser è rimasta indietro, lei e i suoi trentacinque chili abbondanti) e sono venuta via.
Il cambio sembra aver avuto un effetto positivo: stanno arrivando lavori nuovi - pagamenti di lavori vecchi un po' meno, purtroppo - e io sto ingranando bene.
In secondo luogo, udite udite!, sto scrivendo. Mi sono anche fatta venire una mezza tendinite perché ho scritto - a mano - per tre ore di fila: la destra è leggermente gonfia e sento dolore - lieve ma persistente - fino al gomito.
Mi sa che sono troppo vecchia per certe stronzate! (Mento)
Colgo l'occasione per ringraziare pubblicamente tutti quelli - non faccio nomi, ma loro lo sanno - che mi hanno offerto supporto e consigli.
Avevate ragione, eh. Dovevo mollare gli ormeggi e ricominciare a divertirmi. Con una storia tutta nuova che mi entusiasma e alla quale non vedo l'ora di tornare.
Strano a dirsi - o forse no - paragoni con Ultimo Orizzonte e Spéza non ne sto facendo. Intendo dire che non mi viene proprio da farne: immagino che sia un'ottima cosa.
Non so cosa verrà fuori, se un racconto o una cosa più lunga, e per ora non mi pongo il problema: me la sto godendo un mucchio e ho intenzione di andare avanti ancora un pezzo.
Avrei un bel po' di cose delle quali parlare, in primis gli ultimi due episodi di Once Upon a Time, e poi Hydropunk ma... le sere sono prenotate per la scrittura, visto che durante il giorno si lavora.
Mi rifarò viva quanto prima!
Kisses!

mercoledì 27 novembre 2013

Abbattere i muri

Un po' di tempo fa, discorrevo con i compagni del Blocco C della blogosfera in merito ai miei problemi di scrittura.
Perché, let's face it, io ho problemi di scrittura. Ho due stesure complete da rivedere, una storia a metà, ma... non c'è verso di concludere qualcosa.
Ciascuno di loro mi ha dato consigli. Chi ha detto di prendere pausa, chi ha detto di provare a iniziare qualcosa di nuovo (e breve), chi ha suggerito, invece, di scrivere - come in una lettera a me stessa - il perché non riuscissi a scrivere. O, in alternativa, di descrivere il mio vecchio prof di petrografia. Un arnese ben strano, il mio vecchio prof.
Ma torniamo al punto.
Sono passati giorni e io ho ripreso a scrivere. Non con ritmi furiosi, ma sembrava che qualcosa si fosse finalmente sbloccato.
Mi illudevo.
Sapete, se c'è  una cosa della quale sono sicura è la conoscenza che ho di me stessa: di solito, quando qualcosa non va, non solo so con precisione cosa sia. Ma anche perché.
Perciò, ecco qua. Il mio outing. Probabilmente, non sarà molto interessante, quindi potete pure risparmiarvelo.
Quanto a me, no. Vorrei, ma proprio non posso risparmiarmelo. Ho perso fin troppo tempo.
Ho sempre pensato alla scrittura come a un hobby. Per due - anzi, tre - motivi.
Il primo, è strettamente semantico: non è il mio lavoro, dato che non è scrivendo che mi pago le bollette.
Il secondo, è legato al mio carattere del cavolo: per me, lavoro è sinonimo di stress. Lo so, detto così suona male, ma, essendo una libera professionista sono soggetta a dinamiche che rendono tutto molto precario. E spiacevole. Il lavoro c'è, se vai a cercartelo e a volte se ti capita, implica un bel po' di responsabilità (ragion per cui ho una polizza assicurativa, perché non si scherza con certe cose) e ogni tanto delle rogne. Farsi pagare è sempre un terno al lotto e poi c'è tutta la sfera della contabilità che per me resta qualcosa di profondamente misterioso e terrorizzante (meno male che c'è il commercialista). Insomma, scadenze, contrattazioni, delusioni e frustrazione. Non esattamente piacevole, ve l'ho detto.
Il terzo l'ho ammesso a me stessa solo poco tempo fa, perché è un alibi. Se scrivi per hobby, lo fai quando ti va, hai una scusa per non impegnarti, se le cose riescono male in fondo va bene lo stesso, perché tanto... è un hobby. (Il che non significa che io non mi impegni. Ma... just in case).
Ammettere una cosa del genere non è facile, ve lo assicuro. Specie ammetterlo nella blogosfera.
Non sono mai stata una  persona coraggiosa e non sono mai stata sicura di me stessa. Ancora oggi, far leggere a qualcuno qualcosa di mio è fonte di profondo imbarazzo. Un po' perché non mi va di sentirmi giudicare. Un po' perché sono una perfettina inside (e anche questa è una bella rottura di scatole).
Ho mandato in giro il manoscritto di Ultimo Orizzonte solo grazie alla mia amica Babi, che ha continuato a insistere. E quando è stato accettato da WePub mi sono chiesta, sul serio, se mi andava di buttarmi.
Non perché sperassi in qualcosa di meglio, no. Ma perché non pensavo di avere il carattere giusto per espormi in quel modo.
Sono felicissima di averlo fatto, va da sé. E sono felicissima di come è venuto fuori il romanzo, perché è il meglio che potessi fare. Ho dato il 110% e, se manca in qualcosa, beh, è un problema di limite mio, non di impegno. Non ho nulla da rimproverarmi, in questo senso.
Perché dico questo? Perché adesso Ultimo Orizzonte è diventato il mio limite. Perché non sono convinta di riuscire a fare meglio di così. Perché il peso delle mie stesse aspettative mi sta opprimendo e, ormai, ne sono schiacciata.
Qualsiasi cosa io scriva, mi sembra sempre "non abbastanza". 
Non abbastanza originale.
Non abbastanza divertente.
Non abbastanza ben scritto.
Ho sempre scritto senza pensare che qualcuno potesse leggere. Ma adesso non riesco più a farlo perché so che qualcuno leggerà, non fosse altro che per rifiutarmi il manoscritto. Scrivo e poi mi dico "ma il lettore deve sapere anche questo e quello" e allora aggiungo spiegazioni. Poi mi dico "no, è troppo" e tolgo. Mi domando cosa penserà chi leggerà, specie perché a questo qualcuno è piaciuto Ultimo Orizzonte e le cose nuove fanno schifo a me, immagino agli altri... a quel punto, sono nel panico e non c'è verso di uscirne.
E quando vedo i miei colleghi del blocco C che scrivono e si divertono, io li ammiro, ammiro la loro creatività e, in senso buono, li invidio. Perché si divertono.
Vorrei liberarmi di queste aspettative, buttare giù il muro che mi sono costruita intorno e tornare, semplicemente, a raccontare storie, senza giudicarmi. Prima scrivere mi faceva sentire libera. Adesso mi sento in gabbia e cambia poco che mi ci sia ficcata dentro da sola e abbia la chiave in tasca, se non riesco a tirarla fuori.
Lo so benissimo che nessuno può darmi la soluzione.
Com'è? Medico, cura te stesso?
Posso solo sperare che questo sia il primo passo verso la guarigione.

giovedì 24 ottobre 2013

Anche la Parietaria ha una storia del cesso.

Quando ha scritto il suo post, Germano non se l'aspettava, di aver creato un mostro. Un meme, voglio dire.
Ma lo spunto era troppo bello per resistere e così è stata la volta di Marina. A seguire, Alessandro. E oggi, Davide e Gianluca.
Cos'è la storia del cesso?
Leggete il post di Germano - e guardate il video - lo capirete.
No, è che quando dici a qualcuno che scrivi la raffica di domande è d'obbligo (dopo una pausa di stupore mixato - a scelta - con: ammirazione, incredulità e sospetti sulla tua sanità mentale): cosa scrivi? Come hai iniziato? Ma soprattutto: perché lo fai?
(E non arrischiatevi a dire che pubblicate in ebook, perché vi toccherà una variazione sul tema: "Oh, e cosa sono gli ebook?". Un interlocutore che non tiene alla sua incolumità fisica potrebbe lasciarsi anche scappare un deluso: "Ma allora non è un libro vero")
Il che è una delle ragioni per cui pochissime persone fra quelli che mi conoscono nella vita reale sanno che scrivo. Perché la mia risposta - in spezzino - sarebbe: oh, feve 'n po' i cassi vostri. Sottotitolo: scusate, non ho mica detto che mi drogo, eh. Ho solo detto che scrivo.
All'incauto interlocutore darei una testata.
In ambedue i casi, non è cortese.
Ora, visto che scrivo e mi piace farlo, di storie del cesso sul come ho cominciato ve ne potrei propinare una quantità. Inventare storie e inventare balle, in fondo, sono la stessa cosa.
E poi, l'avrei già fatto, ecco. Dove? Ve ne ho parlato qui e questa potrebbe essere benissimo la mia storia del cesso. Incidentalmente, è anche vera.
Come anche i miei illustri predecessori lungo la via del meme, anche io difetto di sturm und drang: non placo uragani Katrina interiori, non purgo demoni, e di certo non rutto in faccia al lettore afflati poetici. La gente si incazza se gli rutti in faccia, sapete.


Anche no.


Partendo dal presupposto che detesto le suddivisioni di genere, scrivo quello che mi piace. Narrativa fantastica. Delle vite qualsiasi di persone terribilmente qualsiasi (cit.) non sappiamo cosa farcene, il piccolo nerd interiore ed io. Ci deve essere qualcosa di straordinario: maghi, astronavi, viaggi nel tempo, dei, ed eroi, e cattivi, e mostri, e bestie parlanti, e oggetti parlanti, e zombie, e dinosauri e... più strano è, meglio è. Altrimenti ci annoiamo.
E se vi devo dire perché ho iniziato a scrivere, beh, per sapere cosa succederebbe se e cosa succede dopo.
Del cosa succederebbe se vi ho parlato sopra. Quanto al cosa succederebbe dopo... è che sono curiosa, curiosa che è un eufemismo per dire "ficcanaso", curiosa al punto che, ma questo non lo faccio più, vado (andavo) a sbirciare il finale dei libri prima di iniziarli.
Quindi... ma cosa diavolo succede ai personaggi dopo che la vicenda è finita e a me tocca chiudere il libro?
Le prime cose non scolastiche che ho scritto erano fanfiction (e non avevo idea che si chiamassero così. All'epoca, quelle due o tre ere geologiche fa, magari il termine nemmeno esisteva). La prima è stata un sequel di Labyrinth, se volete saperlo. Perché a me non andava bene, proprio no, che il Re dei Goblin fosse lasciato con un palmo di naso a guardare gli altri che si divertono perché in fondo, cavolo, lui ha fatto solo quel che gli ha chiesto Sarah (che è una marmocchia viziata).
Ho continuato a scrivere perché è divertente. È molto egoista, lo so: io mi diverto. Se anche voi vi divertite a leggere, tanto meglio. Sennò... non è un problema mio!
Che poi, non è divertente sempre, ma la maggior parte del tempo sì.
E, corollario da non sottovalutare, ho scoperto che - ehi, non ho mai detto di non avere un ego grosso così - è bello quando ti leggono e ti fanno i complimenti. O quando capita di vincere un concorso.
Ti senti la Regina del Mondo e, scusate, ogni tanto è un giro di giostra che vale la pena fare (il guaio è che torni con i piedi per terra).
E poi ci sarebbero i soldi.
Adoro i soldi. E non credete a chi vi dice il contrario: i soldi li adoriamo tutti. Fare soldi scrivendo non è un brutto modo di pagarsi affitto, bollette e una pizza ogni tanto (vedete? ho pretese molto modeste). In Italia, ahimé, la cosa è un tantinello utopica, specie se pubblichi in ebook (per quanto la mia casa editrice sia, sotto questo profilo e anche sotto tutti gli altri, esemplare), ma resta comunque un'aspirazione dignitosissima.
Perciò, quando sento dire "io scrivo per essere letto, i soldi non mi interessano"... ho i miei bravi dubbi. In realtà, io sono una cinica: se non ti interessano i soldi, vuol dire che la gratificazione che ricavi dall'avere un pubblico è qualcosa cui non puoi assegnare un prezzo.
E questo puzza tanto, tantissimo di narcisismo.
Ma in fondo, che male c'è? Tutti gli scrittori hanno un ego grande così, me compresa, ve l'ho detto. Ci vogliono un ego grande così, una vena di follia e una di esibizionismo per far leggere le proprie cose.
Se ci pensate, non è tanto diverso dal far vedere a tutti di che colore sono le tue mutande. Solo che non rischi una denuncia per atti osceni in luogo pubblico.


Ah, se per caso vi domandaste cosa c'entra la foto, beh... quelli sono i gabinetti pubblici di Efeso. Really. Tutti seduti uno accanto all'altro, i cittadini ne avranno avute di storie del cesso da raccontarsi!

venerdì 13 settembre 2013

Il blues della scribacchina.

Lo so, lo so, lo so: avevo detto che la Parietaria sarebbe stata meno abbandonata a se stessa.
È che il lavoro su Kismet procede lento e faticoso, spesso sono tentata di buttare 'sta storia nel cesso. Nei momenti peggiori, sono tentata di buttare nel cesso la scrittura in toto. Mi semplificherebbe la vita.
Il malumore - perché è inutile che mi nasconda dietro un dito: questa situazione mi mette di pessimo umore - mi porta a non volerne più sapere nemmeno del blog.
Ma, alla fine, eccomi qui.
Sto lavorandoci su. Mi sento persa, perché la storia non mi convince, i personaggi non mi convincono, la scrittura non mi convince, io non convinco me stessa, ma stringo i denti e vado avanti.
Avevo progetti per questa storia, ma più il tempo passa, meno mi sembrano buone idee.
E, comunque, detesto quando non so da che parte rigirarmi: sono una persona logica, accidenti.
Ho una serie di spunti interessanti che non vedo l'ora di scrivere (uno in particolare mi fa sbavare, è una di quelle ambientazioni sporche, puzzolenti e rugginose che piacciono a me), ma per poterlo fare mi servono delle scene di collegamento e, prima di scriverle, ho bisogno di sapere che ci stanno.
E per me "ci stanno" vuol dire che hanno una funzione chiara e logica nel contesto. Non che sono appese lì a caso, giusto perché mi servono per andare da una parte all'altra della storia. Oltretutto, sono questioni che non dipendono tanto dai protagonisti, quanto dalla situazione esterna: sono "mosse" da altri personaggi, che però stanno sullo sfondo.
Avete presente quando i personaggi, oltre ai loro personali casini, si trovano nel bel mezzo di una roba più grande, tipo... una guerriglia fra religioni diverse?
Ecco, più o meno la situazione è questa. E siccome me ne sono resa conto dopo aver finito la prima bozza, raccordare la nuova cornice con il già scritto non è proprio semplicissimo. Significa ripartire dall'outline.
Beninteso, non sono affezionata alle mie stesse parole: se c'è da tagliare taglio, non faccio storie. Preferisco conservare, quello sì, spunti e suggestioni, ma so che posso sempre giostrarli in modo diverso. Se devo tagliare un capitolo o due, pace.
Ma lavorare sull'outline... mi manda ai matti. Non voglio dire "non lo so fare" perché suona stupido, e infantile, e quello che non si sa si impara, piantala di lamentarti e mettiti a lavorare, cretina.
Però la verità è che, come ho detto, sono persa.
Non lo so, come fanno gli altri. Vorrei proprio saperlo. Oppure, come sopra: trova il tuo modo, piantala di lamentarti e mettiti a lavorare, cretina.


L'immagine l'ho presa da qui

martedì 13 agosto 2013

Girls just wanna have fun.

Questa è bella e vi lascerà a bocca aperta, soprattutto visto il post di ieri.
Mentre la revisione-inglesizzazione di Kismet procede (e forse procederà anche in crociera), ho appena partorito un'altra delle mie folli idee.
Ora, mettiamoci il cappello bianco (sto leggendo Sei cappelli per pensare e ve ne parlerò) e iniziamo dai fatti.
  1. il romance è un genere molto strutturato, specie oggigiorno. (Sarebbe un modo carino per dire che le trame sono tutte uguali.)
Ora voi vi chiederete: cosa c'entra il romance, adesso? C'entra, c'entra.
C'entra perché ho deciso di provare a scriverne uno.
No, non sono impazzita. Ho sempre il cappello bianco in testa, ragion per cui vado a spiegarmi.
Innanzitutto, sgombriamo il campo dai fraintendimenti: non è una questione di "scrivo un romance e faccio i fantamiliardi". Non è nemmeno una questione del "scrivo un romance e riformo il genere". Oppure "visto che la fantascienza in Italia non tira, provo con un genere di moda".
Lo leggerà solo la persona che lo scrive con me (non ve l'avevo detto? Ho coinvolto qualcun altro in questo folle progetto): non credo avrò il coraggio di chiamare in causa le mie fedeli Socie - con tutto che loro di mie schifezze se ne sono sorbite a iosa! Quindi rilassatevi, non sto cedendo al lato oscuro dell'editoria.
Detto fuori dai denti non ho un gran rispetto per il romance. Quello moderno, intendo. Lo trovo scemo. Parecchio scemo. Malscritto più spesso che no. Privo di una qualsiasi parvenza di documentazione alle spalle. E, spiace dirlo, finisce per essere una imbarazzante vetrina di orrori sia grammaticali che tecnici. Non mi impressiona nemmeno il maschio fascino del protagonista di turno per il quale, di solito, provo repulsione mista a pena.
E allora perché lo vuoi scrivere?
Per tre motivi.
Primo - e più semplice - per riderci su. Vi sembra strano? Non so cosa dirvi: provate mai l'impulso di mangiare schifezze o fare cose sceme solo perché fa ridere? Beh, io sì. E il pensiero di avere a che fare con eroi testosteronici ed eroine svenevoli mi fa morire dalle risate. Pensatela come l'equivalente scrittorio di saltare dentro le pozzanghere. Ognuno si diverte un po' come vuole, no?
Il secondo - un po' puerile, lo ammetto - è: sono curiosa. Scrivere romance è facile come sembra? Il mio obiettivo sarebbe - una volta fissato tutto - portare a casa una prima stesura in dieci giorni.
Il terzo ed ultimo - che rappresenta l'unico lato positivo della faccenda - è questo: voglio provare a pianificare, usando tutte le tecniche da manuali di scrittura - index card in testa. Scrivere solo una volta definito tutto.
E il romance, standard com'è, è perfetto.
Non solo, proprio perché di questa storia non me ne frega niente mi sento libera di adottare un approccio... da catena di montaggio, se vogliamo. 
Forse capirò come essere un po' meno giardiniere e un po' più architetto anche nelle storie delle quali mi importa.
Personaggi costruiti a tavolino. Viaggio dell'eroe alla mano. Arco di trasformazione da manuale. E tutto questo senza patemi, senza sbattere la testa al muro, così, in totale relax.
Mi divertirò da morire. Anzi, ci divertiremo da morire, la mia compagna d'avventura e io.



lunedì 15 luglio 2013

Riding my panda!

Continuano le mie avventure con l'inglese, fra perplessità, errori e qualche divertente fraintendimento. Per ora ho ricevuto due feedback e sono abbastanza positivi - il che mi rende felice, chevvelodicoaffà.
La decisione di partecipare a questo corso, per quanto azzardata, si sta rivelando quella giusta: mi sono sbloccata e sto riscrivendo la storia in un modo finalmente "mio".
Doverla riscrivere in un'altra lingua mi costringe la me stessa attaccata come una cozza al testo originale a lasciarlo andare: non posso conservare le frasi così come sono. Sono costretta a ripensarle e, nel far questo, finisce che ripenso tutto quanto. Considerato che prima faceva pietà, direi che è altamente positivo.
I cambiamenti che ho apportato sono tanti, ho appena cominciato e sono/saranno radicali. Già un personaggio è volato nel paradiso dei personaggi esclusi, come successe a Kevin Costner per Il grande freddo e un altro si appresta a seguirne le orme.
Ho pensato che farla semplice può essere un'ottima idea.
Finalmente, la Kismet ha iniziato a prendere forma davanti ai miei occhi: la vedo, la sento, la annuso (e non è un odore molto piacevole). I personaggi - anche se uno alla volta - hanno iniziato ad agire per conto loro, come è giusto che sia.
Le lezioni di Sanderson sono appassionanti e divertenti e ho scoperto di non essere l'unica che usa un intero first draft semplicemente come outline. Lo so, è roba da matti. Però ti fa sentire meno strana. Oggi dovrebbe andare on line la seconda, il che vuol dire che ho tempo fino a lunedì prossimo per postare altre mille parole.
Oltretutto, saranno mille parole scritte direttamente in inglese: avendo cambiato il plot, per questa parte, ho bisogno di un paio di scene di raccordo.
A questo punto, la vecchia me avrebbe detto: "Speriamo bene".
La nuova me invece dice...
L'immagine viene da qui


venerdì 12 luglio 2013

Saddle up my panda



Dunque, non volevo dire niente, anche perché la figura di palta è davvero probabile, ma è risaputo che non tengo nemmeno il semolino, quindi vi spiffero la mia ultima follia.
Anche perché erano mesi che attendevo di compierla!
Sto partecipando a questo: una classe di scrittura creativa on line che segue il corso tenuto da Brandon Sanderson alla Brigham Young University.
[Meglio che ve lo dica: è gratis ed è appena iniziato. Basta registrarsi qui e si può cominciare!]
Ci sono le lezioni in video, e poi si devono postare - sull'apposito forum - almeno mille parole a settimana (lo scopo è arrivare fra quattro mesi ad avere una novel di circa trentamila parole). Altro obbligo è quello di commentare almeno quattro altri testi (con un minimo di centocinquanta parole).

Volete sapere la genialata? Se lo scribacchino vuol vedere i commenti al suo pezzo, deve sbloccarsi dei "crediti reputazione". Come? Facile: ti vengono assegnati quando commenti gli altri. Altrimenti, e qui sta il nocciolo della questione, vedi che qualcuno ha scritto qualcosa a margine del tuo testo, ma... col cavolo che lo leggi!
Fantastico, vero? Il piccolissimo particolare è che devo farlo in inglese.
Non ho problemi di comprensione dei testi - o del parlato - visto che tutto quello che leggo e guardo ormai lo leggo e lo guardo in lingua originale, ma scrivere? Quella è tutta un'altra cosa.
Sto facendo una fatica bestiale. Però è divertente, molto. E proficua, visto che la sto usando per riscrivere Kismet e che il nuovo incipit è decisamente migliore di quello precedente (non che ci volesse poi molto, quello vecchio era una vergogna).
A volte bisogna fare cose nuove, per sbloccarsi!

venerdì 21 giugno 2013

Vivere in apnea

È un po' che non ci si sente, eh?
E vi scrivo fra una scossa di terremoto e l'altra, tanto per non farmi mancare nulla. (Se ho ragione, ne avremo per un bel po', ancora.)
Ma, a parte questo, la ragione per cui ho smesso di essere presente qui era che stavo aspettando. Aspettavo i risultati di un esame medico. Con ansia.
Tutto bene, fortunatamente, ma, in tutto questo tempo, ho vissuto davvero in apnea.
Volevo solo dirvi: ho ricominciato a respirare.

venerdì 24 maggio 2013

The Good Always Wins. Maybe.

La bella notizia (per me, ovvio) è che ho ricominciato a scrivere: ho ripreso in mano una storia cui tengo tanto e che avevo lasciato a metà. 
Siccome era passato davvero molto tempo, ho riletto la stesura. Dopodiché ho stilato la timeline. 
Amo le timeline.
Non servono solo a evidenziare se hai incasinato la scansione temporale, per cui Tizio parla di cose che non sono ancora successe (no,  non si può fare... non è mica il Dottore!) o incontra Caio morto dieci pagine prima (e non è né zombie, né vampiro, né altro di soprannaturale). La timeline serve a mettere in evidenza con quanta efficacia stai percorrendo le varie tappe che costituiscono la trama.
Nel mio caso, dopo cinque giorni i personaggi erano ancora lì a girare in tondo, senza aver fatto l'unica cosa che dovevano. 
Cinque giorni di dialoghi, di spostamenti ma, stringi stringi, cosa succedeva, ai fini della trama? Un accidente di niente. Nulla.
Ci sono rimasta male. E non perché mi tocca rimboccarmi le maniche e buttare un sacco di pagine. Ci sono rimasta male perché è (era) colpa mia: quando loro girano in tondo è perché io non so dove andare a parare. 
Perché non sono capace di pianificare
Questa volta, però, non posso permettermi di andare a braccio, anche adesso che so con buona approssimazione dove sto andando.
A causa dell'antagonista.
L'antagonista di Ultimo Orizzonte era facile da gestire: i suoi bisogni erano semplici, anche se francamente disgustosi, e non aveva troppi problemi perché, essendo una divinità, poteva contare su, come dire, un vantaggio naturale.
Questa storia ha un antagonista piuttosto complicato. 
Tanto per cominciare, è un manipolatore. Secondo, ha passato parecchio tempo a studiare e progettare le proprie mosse. Ha un piano e intende portarlo alla piena realizzazione. E poi ha una facciata da mantenere, il che vuol dire che, qualsiasi cosa succeda, lui deve uscirne immacolato. Quindi, deve trovare qualcuno che faccia il lavoro sporco al posto suo (e poi toglierlo di mezzo).
Per me, voglio dire la me scribacchina, questo significa piantarla di piagnucolare "no, a pianificare non ci riesco" e progettare le sue mosse nei minimi dettagli (mosse e motivazione, of course. La motivazione è fondamentale). Perché, per quasi tutta la prima parte della storia, è lui che fa il bello e il cattivo tempo. E lo fa in modo così sottile che gli altri neanche se ne accorgono.
Proprio per questo, oggi, mentre facevo brainstorming con l'insostituibile Babi, riflettevo e prendevo appunti mi è venuto in mente Once Upon A Time.
Lo so che apparentemente non c'entra, ma seguitemi.
Oltre al (melenso) I will always find you, l'altra catch-phrase è The good always wins.
Un caposaldo di qualsiasi storia: miti, fiabe, storie per ragazzi, narrativa di qualsiasi genere. Nella maggior parte dei casi, il bene trionfa.
E io oggi mi chiedevo: ma sul serio?
No, voglio dire, è lodevole, ma guardiamoci bene nelle palle degli occhi: quante volte ci è capitato di incontrare, nei libri o nei film, un supercattivo stra-organizzato e dotato di esercito che viene fregato da una compagnia di quattro sciagattati senz'arte né parte, che non hanno dalla loro il conforto del calcolo delle probabilità?
Forse sarò io ad essere superficiale - e chiedo perdono per questo - ma prendiamo l'eroe che è lì che vive la sua vita. A un certo punto, viene coinvolto in qualcosa - o perché ficca il naso dove non deve, oppure perché qualcuno lo coinvolge - ma il punto è: capita all'improvviso e lui viene sbalestrato all'interno di una vicenda che comporta, va da sé, una certa dose di rischio personale, per non parlare della posta in gioco. Non è mentalmente preparato, all'inizio.
Il cattivo no. Il cattivo, di solito, è quello che ha un piano. Che vuole qualcosa, o qualcuno, ma che, insomma, si rimbocca le maniche e cerca di raggiungere il suo scopo. Si impegna. A fare il male, d'accordo, ma si impegna. Chessò, recluta un esercito, rapina una banca, rapisce qualcuno, ruba componenti militari (ho ancora rigurgiti da Fast&Furious 6). Non viene buttato in mezzo ai casini: sa cosa sta facendo, dove, come, perché, a chi. Ha tutto quanto sotto controllo. (Deve essere un cattivo intelligente, eh, sia chiaro, quindi teniamo presente questa lista).
A me sembra logico che chi è in partita fin dall'inizio abbia maggiori possibilità di vincere. Infatti, ogni tanto, per compensare lo svantaggio si ricorre a qualche sporco trucchetto. Ed è proprio quello che non voglio fare.
I miei "buoni" hanno di fronte una luuuunga strada. E non è mica detto che vincano, eh.