martedì 29 luglio 2014

Penny Dreadful

Questa mi è piaciuta. Altroché se mi è piaciuta. Un difetto? Sono generosa, ve ne elenco due: primo, è troppo breve. Secondo, lascia aperti più interrogativi di quanti non ne chiuda.
Meno male che è stata già confermata una seconda stagione.
Londra, 1891. La capitale inglese non è certo un bel posto: è sporca, fumosa, violenta.
L'americano Ethan Chandler - Josh Hartnett, che normalmente non mi impressiona, ma qui è proprio bravo - si guadagna da vivere come tiratore in uno spettacolo itinerante a tema Far West quando viene avvicinato dalla misteriosa Miss Ives - Eva Green, davvero inquietante - che gli propone un lavoro per quella stessa notte.
Lui non si fa sfuggire l'occasione... e si ritrova in una tana di vampiri in compagnia di Miss Ives e di Sir Malcolm Murray - guarda chi si rivede, Timothy Dalton - e qui apro una prima parentesi: avete notato il cognome 'Murray'? Questo Sir Murray è un ricco ex-esploratore, alla ricerca della figlia Mina, che è stata fatta prigioniera da una di queste creature.
Vi suona un campanellino in testa? Anche a  me.
La scorribanda notturna frutta ai tre il cadavere di uno di questi vampiri, che deve essere analizzato da una persona competente. Ed è all'obitorio che i tre incontrano uno degli altri protagonisti: un giovane dottore dall'aria lievemente allucinata, che a tutta prima si rifiuta di interrompere il suo lavoro, e che pare ossessionato dalla ricerca. Si chiama Victor. Victor Frankenstein.
Altro campanellino? Eggià. Non sarà l'ultimo.
Perché sulle prime il dottor Frankenstein rifiuta di vedere il cadavere, ma poi si lascia convincere a iniziare l'autopsia e scopre, tanto per cominciare, che la pelle non è una pelle, ma una sorta di involucro chitinoso che, una volta rimosso, rivela dei geroglifici incisi nella carne. Che fare, allora? Semplice, fotografarli e recarsi dall'egittologo Ferdinand Lyle per farli tradurre. Costui anticipa che vengono dal Libro dei Morti, chiede se ce ne sono altri e, alla risposta affermativa (e alla conseguente richiesta di tradurre il resto), impone che Sir Murray e Miss Ives partecipino a una festa a casa sua... alla quale è presente un affascinante galantuomo di nome Dorian Gray.
Ve l'avevo detto che il campanellino non sarebbe stato l'ultimo.
Da qui in avanti non vi racconto altro, non vi ho certo detto tutto (altri campanellini suoneranno!), perché la serie va vista. Mi ha preso sempre più con l'andare degli episodi, in parte per via del dipanarsi dei misteri sul passato dei protagonisti, ciascuno dei quali ha un segreto inconfessabile, in parte per via della caccia alla creatura che tiene Mina prigioniera.
Quanto all'ottavo episodio... sono indecisa se dire che è un capolavoro o una bastardata. Probabilmente entrambe. Anche perché, fra i vari colpi di scena, ce n'è uno che proprio mi ha fatto saltare dalla sedia e che getta una nuova luce sul massacro di mamma e figlia che apre l'episodio uno, sulla scena con i lupi allo zoo dell'episodio tre e su vari altri dettagli molto piccoli ma che, alla luce di quella particolare informazione, assumono un significato ben più sinistro.
In definitiva: bella serie, troppo breve, ma, come da standard internazionali, ben recitata, ben scritta e ben girata. Ambientazione e costumi fantastici.
Se vi è piaciuto La lega dei gentiluomini straordinari (il fumetto, non quella ciofeca di film!) ve la consiglio, ma sappiate che, una volta finita, vorrete il primo episodio della seconda stagione tipo subito.

giovedì 24 luglio 2014

The Musketeers, ovvero...

...i moschettieri non sono mai stati così fighi.
La storia dei tre moschettieri è celeberrima - non è fra le mie preferite di Dumas, il mio cuore è tutto per il Conte di Montecristo - ed è stata narrata e ri-narrata in tutte le salse, almeno per quel che riguarda il primo capitolo (I tre moschettieri). Le altre due parti (Vent'anni dopo e Il visconte di Bragelonne) hanno avuto minor fortuna cinematografica e (forse) meno popolarità anche fra i lettori.
Quanto a me, diciamo che Athos, Porthos, Aramis e D'Artagnan hanno cominciato a far parte della mia vita abbastanza presto, quando ho preso a prestito in biblioteca la versione per ragazzi de I tre moschettieri. Quella, per intendersi, dove Costanza Bonacieux non è la moglie di Bonacieux, ma la figlia... insomma, una roba parecchio castigata (a dirla tutta, quando ho letto la versione integrale per la prima volta, sono rimasta sorpresa dalla scoperta che era, in realtà, la moglie!).
Per quanto riguarda i moschettieri sullo schermo, ne ho viste diverse versioni, da quella animata, a ai due film anni 70, con Micheal York che fa D'Artagnan e Richard Chamberlain - ah, Richard Chamberlain! - in quelli di Aramis. (Ho già detto che ho sempre avuto un debole per Aramis?).
E poi quella Disney, con Kiefer Sutherland nei panni di Athos (ho un debole per costui dai tempi ahimé lontani di Young Guns), ovviamente edulcorata. Non ho visto la versione 2011 - solo dei poster e delle immagini vagamente steampunk - ma devo dire che non mi attira proprio.
E poi la BBC se ne esce con questo The Musketeers.
Che non è, badate bene, la storia raccontata nel libro, ma è basato sui personaggi creati da Dumas. La prima puntata mi era piaciuta ma non così tanto da spingermi verso la visione compulsiva (cosa che è successa, invece, con Da Vinci's Demons). Poi, finite le avventure di Leonardo (e del mio prediletto Riario) e in crisi d'astinenza da serie tv fatte bene, ho rispolverato i moschettieri. E me ne sono innamorata. Ma è stato strano, eh, perché all'inizio quasi non mi piacevano: troppo giovane D'Artagnan, troppo nero Porthos (non è per essere razzista, eh), Athos e soprattutto Aramis, no, loro mi sono andati bene subito. Soprattutto Aramis (Santiago Cabrera... donne! guardate e sbavate!). Ho dato loro fiducia e i moschettieri mi hanno conquistata, tutti quanti. Il mio preferito continua a essere Aramis, ma sono tutti ottimi personaggi.
E poi c'é il Richielieu di Peter Capaldi. Ora, già Richielieu è un personaggione, ma recitato da un fior fior d'attore è veramente uno spettacolo. E, per quanto siano bravi tutti gli altri, Capaldi è una spanna sopra. (Re Luigi, però, sembra Mike Myers, dentoni e battute cretine incluse)
La serie è ben scritta, ben recitata, divertente, ben girata... insomma, il solito prodotto BBC d'eccellenza che ti fa vergognare quando poi inciampi sulle ficscion nostrane.
A quanto pare, ne produrranno una seconda stagione (compatibilmente con gli impegni di Capaldi dodicesimo Dottore) e io già non vedo l'ora.
Insomma, come ho detto, i moschettieri non sono mai stati così fighi. Guardateli, non ve ne pentirete!

martedì 22 luglio 2014

Gravity

A 600 km di altitudine dalla terra, la temperatura oscilla fra -125.5 e i - 100 gradi centigradi.
Non c'è nulla che trasporti il suono.
Non c'è pressione.
Non c'è ossigeno.
La vita nello spazio è impossibile.

Questo basta e avanza per immaginare che andare lassù richieda un coraggio da leoni.
Perché, fra te e la morte, la morte assoluta, sconfinata, gelida e inconoscibile c'è solo una sottile parete ultratecnologica di lamiera.
Uscire all'esterno, fare EVA, è ancora peggio. Quel che ti tiene in vita è la tuta: alla fine, sono fibre di carbonio.
Una problema, anche minuscolo, un dettaglio mal calcolato, un movimento nel momento sbagliato e nel posto sbagliato e sei morto. O destinato a morire - disperso - nello spazio profondo, ad aspettare di soffocare.
Lo spazio non concede seconde possibilità.
È terrificante. E Gravity spinge l'acceleratore su questa paura, portando lo spettatore a condividere l'allucinante esperienza di Ryan - una Sandra Bullock assolutamente strepitosa - ingegnere biomedico prestato alla NASA che, alla sua prima missione, si ritrova, di punto in bianco, nella peggiore delle situazioni possibili: una imprevista pioggia di detriti devasta lo Shuttle, uccide i membri dell'equipaggio a bordo e, per farla molto breve e non spoilerare, Ryan rimane da sola.
I detriti hanno coinvolto anche i satelliti per comunicazioni, quindi il contatto con il comando missione a Houston è saltato.
Perciò, nel silenzio dello spazio profondo, Ryan è sola. Completamente sola.
Tuttavia, ridurre Gravity al solito film d'avventura in cui il protagonista di turno se la cava in una situazione terribile, sarebbe riduttivo.
Perché, per come la vedo io, è anche la storia di una rinascita.
Ryan è un essere umano isolato e ferito dalla morte della figlia, che vuole intorno a sé il silenzio. Il nulla. La vicenda di Gravity è infatti il ritorno di Ryan alla vita tramite la crisi, la perdita - quella di Kowalsky, il comandante della missione, che inizialmente è l'altro sopravvissuto - e la lotta.
Ryan impara a lasciare andare - lasciar andare il ricordo della figlia, lasciar andare alla deriva Kowalsky perché in due non possono salvarsi -, impara a lottare e ritorna alla vita, dopo aver rischiato di lasciarsi morire.
La sequenza finale è semplicemente splendida e vale da sola l'intero film: la discesa nella capsula cinese Shinzou attraverso l'atmosfera, l'atterraggio in un lago, l'apertura del portello con l'acqua che entra, e Ryan che  ne esce - quando ormai la capsula è sul fondo - come da un utero, spogliandosi della tuta da astronauta come della sua vecchia vita, lei che riemerge e respira a pieni polmoni. Ancora è in acqua, non sente il suo peso, fluttua a pelo d'acqua, ma poi nuota verso la riva. Approda e finalmente sente sul suo corpo la gravità. La Bullock è bravissima anche qui a farci capire con il linguaggio del corpo la difficoltà di sentirsi di nuovo il peso addosso, non riesce a tirarsi su, cade, ma sorride e dice "No", e non resta giù, ma si rialza, si alza in piedi - una splendida inquadratura da sotto in su, nella quale sembra alta chilometri -, getta indietro la testa e le braccia, aprendo il petto (lo so che sono una fissata, ma ho riconosciuto la posizione: si fa anche nello yoga, è una posizione di apertura al mondo) e ride, muovendo infine i primi passi. È come assistere all'uscita della vita - intesa in senso lato - dalle acque, una nuova conquista della terra.
Capolavoro.
Non ho trovato la sequenza intera, solo gli ultimi fotogrammi. Ma guardate la meraviglia.


giovedì 17 luglio 2014

L'importante è non sentirli

L'altro ieri ho compiuto gli anni. Mi sono presa una giornata di stacco totale al mare, quindi avevo mentalmente rimandato questo post a ieri. Solo che ieri sono stata tutto il giorno a un terrificante corso di aggiornamento (a metà fra Operazione Geode e la gita aziendale di Fantozzi) del quale mi ero completamente dimenticata.
Così sono finita a oggi.
Io e la mia età anagrafica non siamo mai andate d'accordo. Un matrimonio difficile, il nostro: lei continua ad aumentare e io mi oppongo.
Ho sempre pensato che questo non andasse affatto bene: che il distacco fra età anagrafica ed età mentale fosse qualcosa di profondamente negativo.
Voglio dire, a trent'anni mia madre aveva già due figli ed era una persona con la testa sulle spalle e che di certo non si perdeva in storie né leggeva fumetti, né (tantomeno!) guardava cartoni animati. Mio padre, idem.
E quando constatavo quanto diversa fossi da quel che loro erano alla mia stessa età mi sentivo inadeguata. Colpita senza rimedio da sindrome di Peter Pan.
Finché dai venti si passa ai trenta, non è poi 'sto gran problema (o almeno non mi sembra tale ora). Il fatto è che, adesso, i quaranta sono dietro l'angolo. E la discrepanza età anagrafica/mentale è sempre lì.
Ci ho rimuginato in solitudine per un po', poi ho dato voce al disagio con il mio compagno. E gli ho detto che i miei anni non me li sento.
Lui si è girato verso di me, con la faccia di uno che ha appena sentito l'ovvietà del secolo, e mi ha risposto: "Guarda che il problema è quando te li senti."
E ha ragione.
Sono diversa da com'erano i miei alla mia età. Prima mi sembrava brutto. Qualcosa di cui vergognarsi.
Oggi posso dire che ne sono fiera.
Ho trentotto anni e mi piace leggere letteratura fantastica. Non mi sento scema per questo. Mi piace anche scriverla e non ho intenzione di smettere. Come non ho intenzione di smettere di guardare film di genere fantastico, di leggere manga o di essere nerd. Come non ho intenzione di smettere di sognare, di chiedermi "cosa succederebbe se?" e inventare storie per rispondere.
Questa sono io. E vado bene così.

L'immagine è presa da qui



lunedì 14 luglio 2014

True Blood. C'est a dire: anche no.

Facciamo che questa volta sono lapidaria.
True Blood è la cosa più stupida che abbia mai visto.
Stupida al punto di essere imbarazzante.
Stupida al punto di essere avvilente.
Stupida al punto di essere irritante.
Stupida al punto che, vista la prima serie, sto cercando di dimenticare la sua stessa esistenza.
Mi hanno detto che poi migliora. Però mi ha innervosito così tanto che anche no, non la guardo.
Perché mi ha innervosito?
Lo volete proprio sapere?
  1. perchè la protagonista è, in una parola, insopportabile. Mary Sue fino all'osso, è la classica bella di Siviglia che tutti la vogliono e nessuno la piglia (ma ho idea che, nel prosieguo, la piglieranno in parecchi). Sookie, manco dirlo, è speciale: è una telepate e questo, va da sé, è causa di un profondo travaglio interiore (?!). Giusto perché melius est abundare quam deficere, è orfana, ha un fratello che possiamo solo definire il non plus ultra della stupidità umana, ed è stata pure molestata da uno zio pedofilo quand'era una bambina. Sookie è egoista, insensibile, non capisce un accidente neanche per sbaglio, sceglie i momenti peggiori per dare dimostrazione - nel modo più sbagliato - di essere una donna forte e indipendente, in pratica ficcandosi nei guai e facendosi salvare all'ultimo minuto dallo spasimante di turno. Calpesta i sentimenti altrui, dichiara amore eterno a uno, ma poi non esita a ficcare la lingua in bocca - sì, ve la dico proprio chiara - a un altro senza nemmeno essere certa che l'aMMore suo sia morto. La sventola in faccia a Sam (datore di lavoro - barista - migliore amico - vittima designata della sua marysuaggine), quando sa benissimo che lui le sbava dietro, per il semplice motivo che sa perfettamente di poterselo permettere. Gli preferisce il vampirLo di turno, ma poi, quando Sam si interessa - è un modo per dirlo, in realtà fa ben altro - a Tara, la sua migliore amica, ha il coraggio di incazzarsi. All'inizio è una verginella, ma poi si rifà abbondantemente del tempo perduto. Consegnatela ai lavori forzati. E poi asfaltatela.
  2. perché il fratello della protagonista è il personaggio più idiota che abbia mai incontrato in trent'anni di libri (e serie tv). Un idiota senza rimedio. Un idiota che non ci si crede. Un idiota che va bene che la realtà supera la fantasia, ma in questo caso particolare anche no, per il bene del genere umano. Imbarcatelo su una sonda per lo spazio profondo e sparatelo via.
  3. perché la miglior amica della protagonista, la summenzionata Tara, è la personificazione del detto - vi avviso, scusate la volgarità - capire le cose dal culo. Non importa quanto la gente tenti di trattarla con affetto, rispetto e di aiutarla. Lei, in nome del passato traggico e della madre beona, ritiene opportuno trattare tutti a pesci in faccia. Legatele un peso ai piedi e buttatela a mare.
  4. perché il protagonista maschile, nonché love interest (ma in questo campo mi sa che dura quanto un gatto sull'Aurelia), nonché vampirLo, Bill è, per dirla in breve, un cliché ambulante. Bello, aitante, innaMMorato di Sookie, protettivo e anche, il che non guasta, ricco. Ovviamente si spara tutte le pose che un vampirLo come si deve è tenuto, da contratto, a spararsi. Inguardabile.
  5. perché la nonna saggia di Sookie è una deliziosa vecchietta evidentemente rincoglionita che, invece di dissuaderla, tenta di accasare la nipote con il vampiro. Forse è un sintomo di demenza senile, ma tanto la fanno fuori, quindi a un certo punto chissenefrega. Serve solo da morta come motivazione per la "trama": potevano farla fuori prima.
  6. perché Sam, il datore di lavoro, altrimenti detto "la regola dell'amico" è un personaggio senza dignità e senza spina dorsale. Sbava dietro a Sookie e lo sanno tutti tranne la diretta interessata - perché le fa comodo far finta di non saperlo. Ovviamente, di quando in quando, specie nei momenti in cui sembra dirigere le sue attenzioni altrove, Sookie gliela sventolerà in faccia e lui docile e sbavante tornerà al suo posto. Fosse un minimo furbo, scapperebbe a gambe levate, invece rimane a farsi trattare come uno zerbino e dopo ringrazia anche. Povero scemo con estremo bisogno di aumentare la propria autostima.
  7. perché i vampirLi - ed Eric in particolare - sono una massa di belle statuine che fanno del loro meglio per apparire fighe. Non fanno paura, non sono inquietanti, riescono solo a essere irritanti e, talora, vagamente ridicoli. Sostanza zero. E fascino non pervenuto. Ma sospetto che Sookie amplierà i suoi orizzonti - e parecchio - in quella direzione. Mandateli a ripetizione da Dracula. O da Lestat (ma prima che si rincoglionisse).
  8. perché la trama, in questa serie, è quella cosa che accade fra una scopata e l'altra. Mi sa che gli sceneggiatori di Game Of Thrones hanno imparato una cosetta o due, guardando questa serie. Per i personaggi, il sesso è la panacea di tutti i mali e, a dispetto di tutto quel che accade, passano un'enormità di tempo a praticarlo/rischiare di praticarlo/venire interrotti mentre lo praticano/pensare di praticarlo. Fateli vedere da uno bravo.
  9. perché il mistero delle donne uccise - e ohoh, il serial killer - è di una stupidità unica, poteva essere risolto senza tanti casini con il test del DNA, ma si ritiene opportuno, per bieche ragioni di... vorrei dire trama, ma non ne ho il coraggio... portare a casa la pagnotta, ignorare che una possibilità del genere esista. Ovviamente, i rappresentanti della legge di Bon Temps - immaginaria cittadina rurale nella quale si svolge tutta l'azione (in realtà si svolge più che altro nelle camere da letto. E nei boschi. E nei bagni) - sono quanto di più incompetente si possa trovare sulla piazza. Tant'è che il mistero glielo risolve Sookie. Cioé, non so se mi spiego... Imbarazzante.
Ovviamente, non posso non menzionare i libri. Già, perché - o giuoia o gaudio - True Blood è tratto da una serie di tredici - diconsi tredici! - libri. Ho letto il primo, in inglese.
È peggio della serie. Non sto scherzando.
Narrato in prima persona da Sookie herself - con un tono che oscilla fra il saccente, il piagnucoloso e l'autocompiaciuto - è ancora più stupido della serie. Lei è ancora più lamentosa, ignorante, egoista e insopportabile della controparte televisiva. Stiamo parlando di una telepate che si autodefinisce disabile. Penso che ci fossero modi meno squallidi per rendere interessante una protagonista, ma, evidentemente, non sono stati presi in considerazione.
Insomma, in definitiva, via i libri. Quanto alla serie, anche no.
Lo so, mi hanno detto che poi migliora. Mi hanno detto che diventano preponderanti gli elementi fantastici. Non è che non mi fidi. Però, sul serio, non posso guardare una serie la cui protagonista mi scatena istinti omicidi dopo due nanosecondi da quando compare sullo schermo (non serve neanche che apra la ciabatta).

lunedì 30 giugno 2014

Da Vinci's Demons (e The Musketeers come bonus)

In crisi d'astinenza da serie tv (Criminal Minds è finito, Once Upon A Time mi ha lasciata appesa - come sapevo fin dall'inizio sarebbe successo -, True Detective è fantastico ma dura pochissimo, Black Sails anche, l'ottava serie del Dottore inizia il 23 agosto e ho piantato a mezza via Castle e The Mentalist), ho cercato qualcosa che potesse interessarmi.
Ne ho trovate due.
La prima è Da Vinci's Demons, la seconda The Musketeer, ma di quest'ultima ho visto finora solo due episodi e me la tolgo dai piedi veloce-veloce: sì, m'è piaciuta, sì ci sono i moschettieri proprio quelli di Dumas, sì, il mio preferito è comunque e sempre quel puttaniere di Aramis (anche se Athos in questa serie ha davvero il suo perché) e, sì, va vista per il Richelieu di Peter Capaldi che si mette tutti in tasca e se ne va.
E adesso, veniamo a Leonardo da Vinci.
Dunque, per riassumere... Da Vinci's Demons è un po' un cazzatone, ma di quelli divertenti, ben girati e ben recitati.
Siamo a Firenze, Leonardo ha venticinque anni e lavora - se vogliamo dir così - nella bottega di Verrocchio ed è, beh, un genio. Di quelli che capiscono tutto al volo, che guardano le cose e negli occhi si formano grafici e progetti, insomma, di quei geni tipo il Sherlock di Benedict Cumberbatch. Leonardo è anche un gaudente, un oppiomane, uno spadaccino ambidestro e un noto casinista. È geniale - e lo sa -, irritante - e lo sa -, e vuole fare strada.
Si trascina dietro - in tutte le sue avventure - Nico, il suo apprendista e occasionale cavia (che poi sarebbe Machiavelli, eh) e Zoroastro, faccendiere ebreo che, tanto per dirne una, gli procura i cadaveri per le dissezioni.
A seguito di un incidente occorsogli da bambino e del quale conserva solo frammenti di ricordi, Leonardo finisce invischiato con una setta di sapienti, i figli di Mitra, e si ritrova sulle spalle il compito di ritrovare il Libro delle Lamine, un mitico libro che contiene... non si sa, cosa contiene, ma facciamo conto che contenga tipo tutto il sapere dell'universo. Solo che 1. non è l'unico a volerlo. Il papa stesso (Sisto IV), che non è proprio un tipo raccomandabile, è un figlio di Mitra rinnegato e vorrebbe il libro per sé e gli sguinzaglia dietro Girolamo Riario che si dice suo nipote (e in realtà è suo figlio illegittimo) ed è uno spietato assassino; 2. Leonardo si è fatto strada nella corte dei Medici, proponendosi a Lorenzo il Magnifico come ingegnere di guerra, il che vuol dire rimanere invischiato in trame e sottotrame politiche, soprattutto perché si è invaghito - diciamo così - della bella Lucrezia Donati, già amante di Lorenzo e spia di Roma.
In questa cornice c'è di tutto. Frullate realtà storica e fantasia, metteteci dentro visioni, veleni, Dracula, spie, enigmi, predizioni e profezie, tombe nascoste che nascondono segreti, samurai con la katana, gemelli buoni e gemelli cattivi, sesso droga e rock'n roll (no, vabbé, il rock 'n roll no), le famose invenzioni di Leonardo che, uscite dai suoi schizzi diventano vere e funzionanti (io mi sono beccata - finora - il deltaplano, l'antesignana della mitragliatrice Gatling, lo scafandro da palombaro e il sottomarino), aggiungete che, alla fine della prima serie, il nostro parte nientemeno che per l'America in compagnia di Amerigo Vespucci (e no, vi fosse venuto il dubbio, Colombo non l'ha ancora scoperta).
Ora, mi rendo conto che, descritta così, la serie sembra una sequela di stupidaggini, una dietro l'altra. Per essere chiara: merita la visione. È divertente, è appassionante, i personaggi sono belli e ben approfonditi (il mio preferito è Riario, by the way), se anche c'è in mezzo parecchia fantasia, va bene lo stesso, anzi, meglio. (Quando Leonardo penetra negli archivi segreti del Vaticano, il piccolo Nerd e io facevamo la ola e non vi dico perché.)
Insomma, guardatela! Non ve ne pentirete.

venerdì 27 giugno 2014

Ricordo che non è per me


Periodicamente, qualcuno che mi è molto vicino rilegge quel che ha scritto e si ritrova, frustrato, davanti alla sua - presunta, del tutto presunta - incapacità.
E, per usare le sue stesse parole, capisco che non è per me. Ricordo che non è per me.
Sono le aspettative che ci creiamo, a farci stare così.
Sono i limiti che vorremmo oltrepassare, gli obiettivi che vorremmo raggiungere - e che ci sembrano allontanarsi di dieci passi ogni volta che noi avanziamo di uno -, quel che vorremmo gli altri pensassero di noi e i dubbi che ci tormentano in merito a noi stessi.
Siamo davvero scrittori, oppure ci manca qualcosa?
Conferme, rassicurazioni, certezza di fare la cosa giusta nel modo giusto.
Una volta certi problemi me li ponevo anche io. Finché non ho deciso di lasciarmeli alle spalle.
Chissenefrega, se non è per te. Scrivi perché ti diverti, scrivi perché ti piace, e, se non ti va, non scrivere, perché quando sarà il momento giusto ne avrai voglia.
È molto retorico - e molto banale - ma scrivere è avere un bel paio di ali. Dubbi, domande e frustrazione sono pesi che ti impediscono di spiccare il volo.
Lasciali a terra e affronta il cielo.

mercoledì 25 giugno 2014

Bruci le mie bussole...




A volte, durante delle sequenze asana in particolare, il maestro che ti guida ti chiede di sentirti "grato".
Come ho detto nel post sullo yoga, lo stato emotivo è importante quanto quello fisico, durante la pratica.
Quando fai il Saluto al Sole, per esempio, la disposizione d'animo è quella di essere grato al sole per la luce e l'energia che danno la vita. Ci sono sequenze che hanno come scopo la rigenerazione e la rinascita - una è il Saluto alla Luna - nelle quali si dovrebbe essere grati a se stessi.
A me, però, la gratitudine non è mai riuscita, specie quella verso me stessa. Livia, la mia insegnante, dice 'sta cosa della gratitudine e io, immediatamente, penso dentro di me: "grata a chi? a me stessa? e per cosa? ma guardami!"
Altro che gratitudine! Lo schifo misto ad irritazione e insofferenza. Di solito, succede che arrivo - a tempo di record - in quello stato d'animo in cui mi prenderei a ceffoni.
Fino a ieri.
Come al solito, inizia tutto a partire da una roba stupida o insignificante. Nel mio caso, dall'autoradio. Perché ieri ero in macchina, il tragitto era abbastanza lungo, avevo l'autoradio accesa, stavo cantando (e non sono granché come cantante, anzi, sono proprio scarsa) e mi accorgo di una cosa: che sto usando il diaframma. Per la prima volta nella mia vita, non sto cantando di gola.
A fare due più due ci ho messo un attimo: la respirazione. Ho imparato a usare il diaframma per respirare, così adesso mi viene naturale usarlo anche per cantare. Non è poco: cantare è una delle cose che mi piacerebbe saper fare e per le quali sono negata.
Così ho iniziato a pensare a quello che è cambiato, a quello che sta cambiando... e, sì, mi sono sentita grata a me stessa.
Non la gratitudine solo positiva che vedi nei film e leggi nei libri, no. Una gratitudine velata d'amaro, perché starò anche percorrendo una strada un passo alla volta (e di questo non devo dire 'grazie' a nessuno ma solo a me), perché sto testando le mie forze e scoprendo che ci sono, perché è qualcosa di unicamente mio, perché la tendenza all'inazione regredisce - ringhiando e soffiando, ma regredisce -, insomma, un sacco di perché positivi... ma è comunque un percorso che ha dei lati oscuri, spaventosi e dolorosi.
Però sì, sono grata a me stessa. E questo tipo di gratitudine sembra più vero, di quella patinata che ho cercato di evocare invano per mesi.
Così, eccomi qua, un altro passetto fatto. E c'è un pensiero rivoluzionario che mi frulla in capo da un po': magari, perdere il controllo non è tutto 'sto gran male.
Magari è divertente. Di sicuro è un'avventura. Forse vale davvero la pena di bruciare le bussole...

martedì 24 giugno 2014

Vi lascio una canzone


Per stupido che possa sembrare, non ho mai compreso questa canzone bene come in questo periodo. Quindi, la condivido. Siate felici per me.


Heaven out of Hell

So are you turning around your mind
do you think the sun won't shine this time
are you breathing only half of the air
are you giving only half of a chance
don't you wanna shake because you love
cry because you care
feel 'cause you're alive
sleep because you're tired

make heaven, heaven out of hell now ...

are you locked up in you counting the days
oh how long until you have your freedom
just shake because you love
cry because you care
feel 'cause you're alive
sleep because you're tired
shake because you love
bleed 'cause you got hurt
die because you lived

make heaven, heaven out of hell now ...

are you still turning around the same things
are you still trying that way
are you still praying the same prayers
are you still waiting for that same day to come

climbing the same mountain
you're not getting higher
you're running after yourself
can't let go
hiding in that place you don't wanna be
you push happiness so far away
but it comes back
to give you all that you've given before
to love you the way that you do, like a mirror
look in the air 'n catch that boomerang
can't fall anywhere else but in your own

and make heaven
heaven out of hell now
make heaven
heaven out of hell now...
make heaven heaven out of hell now
make heaven
heaven out of hell now
are you still waiting
make heaven
heaven out of hell now
are you still praying
make heaven
heaven out of hell now
are you still losing
make heaven
heaven out of hell now
make heaven
heaven out of hell now
I wanna fly because
I dream
dream
dream 

lunedì 23 giugno 2014

Yoga

Alla fine di settembre del 2013, a un mese esatto dal mio rientro dalle ferie, ero di nuovo punto e accapo: stress a livelli di guardia, notti insonni passate a fare conti (la gente non pagava e avevo parecchie spese da sostenere) e un diffuso senso di fallimento che mi avvelenava la vita.
Perfino di scrivere proprio non se ne parlava. Posso anche fare finta che non mi importi della scrittura, ma la verità è che non riuscire a produrre nulla contribuiva a ridurre ai minimi termini la mia già scarsa autostima.
Tutto il bene che avevo tratto da dieci giorni di crociera se n'era andato in un lampo giù per il gabinetto e la mia vita era di nuovo sui binari per Depressione di Sotto - abitanti:1 (la sottoscritta).
Mi guardavo intorno e tutto quel che vedevo era gente più realizzata, più soddisfatta e più felice di me. Gente che aveva quel che io desideravo e non riuscivo ad ottenere.
Non è che questo mi rendesse una compagnia piacevole.
Stava andando a rotoli tutto quanto. Stavo andando a rotoli io.
Volete sapere la cosa peggiore? Ne ero perfettamente cosciente e non muovevo un dito. 
Ma non riuscivo a trovare l'energia per fare qualcosa. Proprio come una medusa - una medusa molto stanca e svogliata - galleggiavo, lasciandomi trascinare dalla corrente (riservandomi, però, il diritto di lamentarmi del dove mi portava). 
Il guaio dell'inazione è che è così terribilmente comoda. 
È come un paio di ciabatte sformate, che ormai sono adattate ai tuoi piedi. A tutti piace un bel paio di ciabatte comode, per stare in casa. Il problema era che, metaforicamente, io le usavo anche per uscire con la motivazione 'sono così comode, perché dovrei fare la fatica di mettermi un paio di scarpe?'. E, in ogni caso, uscivo (sempre metaforicamente) il meno possibile perché 'è così comodo stare in casa, perché dovrei fare la fatica di uscire?'
È un circolo vizioso. Non devi fare nulla: non devi pensare, non devi impegnarti, non devi impiegare alcuna energia. Ti limiti a respirare e lasciare che le cose vadano da sé. Il rovescio della medaglia? Ansia e insoddisfazione, ma delle volte è un prezzo che sei disposta a pagare.
È un semplice bilancio costi-benefici. A volte, il non impegnarsi vale bene un po' d'ansia.
Non questa volta. Questa volta il non-impegno mi stava costando caro.
Ci sono dei momenti in cui capisci di essere arrivata a un bivio e di dover prendere, per forza, una decisione, in un senso o nell'altro. Per me, uno di questi momenti è stato a settembre del 2013.
In un modo confuso, ma pressante, capivo che avrei dovuto per forza fare qualcosa. E farla subito.
La mia risposta (e non nascondo che mi ci è voluta una spintarella) è stata realizzare un desiderio che avevo da anni e che non avevo mai concretizzato (sempre perché costava fatica): cercare un centro yoga e andare a provare.
A posteriori, posso dire che questo passo, così piccolo da essere insignificante, è stato il primo di un viaggio. Un viaggio che mi impegna ancora adesso. Un viaggio non facile, che mi mette di fronte - sempre - a me stessa e alle mie difese.
Ho delle buone difese, io. Ci ho messo quasi trentotto anni a costruirle. Non sono facili da buttare giù, neanche quando ci provi dall'interno.
Andare in palestra, fare acquagym, correre sono tutte attività che non richiedono nulla alla tua mente. Solo la determinazione di sottoporti a un regime di sforzo fisico. Funzionano bene in caso di stress, perché ti spengono letteralmente il cervello.
Quando finisci di faticare, stai bene: hai un bel po' di endorfine in circolo che zittiscono il chiacchiericcio insistente di problemi e fattori stressogeni. Non li risolvono, non li eliminano, ma per un po' li imbavagliano.
Lo so perché ci ho provato.
L'unica cosa che fanno è crearti una sorta di dipendenza, in senso molto lato: finito di correre stai bene, quindi la sera- o la mattina, o il pomeriggio - dopo ci ritorni.
Fare yoga non è, almeno per l'approccio che adottano nel centro che frequento, semplicemente mettersi lì e cercare di assumere posizioni strane con nomi altrettanto strani. La prima cosa che ti insegnano è che c'è unità fra spirito e corpo: se il corpo ha delle rigidità e delle tensioni è perché il tuo stato emotivo ha delle rigidità e delle tensioni.
Perciò devi chiederti per quale ragione assumi posture sbagliate, oppure somatizzi lo stress a livello di certe parti del corpo (per esempio il collo, lo stomaco, l'intestino): è un viaggio non solo alla scoperta del tuo corpo - e qui ci arrivo fra poco -, ma della tua interiorità. Ti fai delle domande e, inevitabilmente, cerchi le risposte.
I problemi e i fattori di stress non vengono imbavagliati, al contrario: vengono fuori, che tu lo voglia o no. E, all'inizio, propendi per il "no".
L'approccio che lo yoga ha all'attività fisica ha rappresentato forse la prima, grande novità per me. Ho sempre fatto sport - magari malvolentieri, perché sono pigra - ma non ho mai prestato attenzione al mio corpo.
Non ho mai identificato me stessa nel mio corpo, ma sempre nel mio io senziente, nel mio cervello, se vogliamo. Ragion per cui ogni movimento, dal più semplice e spontaneo di tutti, il respiro, a quelli più complessi era svolto del tutto inconsapevolmente. Non prestavo attenzione a come i miei muscoli riuscissero a realizzare  una data cosa, fintanto che portavano a termine il compito che il mio cervello aveva dato loro. Non ero cosciente di come respirassi, né del fatto di contrarre determinate parti - per esempio, le spalle - come conseguenza di uno stato mentale tutt'altro che tranquillo.
Avete mai provato a mettervi scalzi e camminare, prestando attenzione solo al movimento dei vostri piedi? A osservare, a sentire, attimo per attimo, come la pianta e le dita lavorano, come cambia il contatto con il pavimento, come il peso viene ridistribuito e poi passato da un piede all'altro?
Provateci. E vedrete che non sarà facile mantenere l'equilibrio. Eppure camminiamo tutto il giorno, no?
Avete mai provato a concentrarvi sul vostro respiro e a studiare come il vostro addome prima e la vostra cassa toracica poi si riempie e si svuota? Io non ci avevo mai fatto caso. Ancora adesso, gli esercizi di respirazione sono quelli che mi riescono peggio. I primi mesi erano una tortura: a livello del diaframma c'era un blocco, una sorta di saracinesca che mi mozzava il fiato.
E avete mai provato a concentrarvi? A sedervi sul pavimento e guardare, che so, la fiamma di una candela concentrandovi solo su quella? La prima volta il mio cervello ha resistito (forse) trenta secondi, dopodiché si è messo a saltabeccare fra le cose che avrei dovuto fare dopo la lezione e l'indomani, quelle che avrei dovuto dire a tizio (e invece, come una stupida, avevo taciuto), fra i soldi che dovevo assolutamente recuperare... e via così. Trenta secondi di apnea - quindi niente affatto rilassante - e poi la scimmietta ubriaca ha iniziato a dimenarsi.
E avete mai provato coscientemente a sdraiarvi e rilassarvi? Stare lì, fermi, con il corpo morbido e pesante e la mente silenziosa. Non è facile come sembra. I primi tempi, durante la fase di rilassamento, mi contraevo. Uscivo dal centro che ero tutta rigida.
Adesso, dopo otto mesi di lezioni due volte a settimana (avevo iniziato con una volta a settimana, ma mi piaceva tanto che ho aumentato a due), posso dire che qualche passetto avanti l'ho fatto.
Intanto, ho imparato a tenere a bada le mie aspettative. (Più o meno. Avete presente il domatore che tiene a bada i leoni con la frusta? Il livello è quello, ma visto che prima i leoni mi stavano sbranando, lo prendo come un miglioramento.)
Nello yoga c'è osservazione e non giudizio. Ora, immaginate me, con la mia sindrome da prima della classe, se potevo evitare di chiedermi 'sto facendo bene questa asana?', 'sto provando quel che si suppone io debba provare?', 'sento il peso del mio corpo come si suppone che lo debba sentire?', 'sto respirando come si suppone io debba respirare?', 'sono brava?', 'sono più brava?', 'sono all'altezza?', 'perché tutti visualizzano i chakra e io non vedo un tubo?'. Ogni tanto ci ricasco, ma è raro. Sulle visualizzazioni, principalmente. Alcuni dei miei compagni di corso sono molto sensibili, sia alle energie che alle visualizzazioni. Io sono riuscita un paio di volte ad attivare l'energia lungo la spina dorsale - una sensazione stranissima: sei seduta in mezzo alla stanza, eppure senti caldo come se avessi la schiena poggiata a un termosifone bollente - e a vedere qualcuno dei chakra - quelli alti, specie il sesto. Il sesto, il terzo occhio, che sta al centro fra le sopracciglia ed è viola, lo vedo facilmente. I chakra bassi invece nisba -, ma poco altro.
Le prime volte, durante la condivisione finale, mi sentivo in imbarazzo. Poi ho capito che forzare la mano non funziona e mi sono rassegnata a concedermi tempo. Dopo un po', anche questa concessione ha perso significato: io sono quel che sono, quando sarà il momento vedrò.
Le aspettative, quando diventano un cappio, sono una rovina. E io con il mio più-brava-migliore-più svelta-più-realizzata e con la compulsione a dover dimostrare sempre qualcosa a qualcuno, mi stavo strozzando. Se devo essere sincera, sto ancora lavorando per venire a patti con un modo di essere diverso, nel quale queste aspettative così stressanti non ci sono. Hanno sempre svolto funzione di motore - ad alta cilindrata, pure - se le tolgo di mezzo, ho paura di rimanere immobile.
Ho anche imparato a osservare il mio corpo. Non ne sono sempre cosciente 24/7, ma adesso, per esempio, mi accorgo se ho le spalle contratte e sollevate, in una tipica posizione di difesa. E le rilasso. Ho imparato a muoverlo coscientemente e non in modo automatico, a osservare - sia durante la pratica che durante il giorno - quali muscoli sono contratti e quali rilassati.
Lo yoga è un'attività di gruppo solo in apparenza: in realtà è profondamente solitaria e questo è il suo fascino (o quantomeno, uno dei suoi molteplici pregi): sei solo con te stesso.
In silenzio. In quiete. Inizi la pratica e piano piano molli gli ormeggi: non esiste il mondo esterno, non esistono i pensieri, esiste solo il tuo corpo e l'attenzione che dedichi al muoverlo e l'osservazione degli effetti che tali movimenti hanno. Quali muscoli stai allungando, quali stai sollecitando, come viene distribuito il peso, come viene raggiunto (e a volte, ma non sempre mantenuto) l'equilibrio.
Ho imparato - in realtà sto ancora imparando - a stare nel presente.
Non è facile, specie con i ritmi della vita odierna. Siamo sempre proiettati nel futuro e io, con i miei noti problemi di controllo, sono peggio degli altri. Sto sempre a pensare a cosa potrebbe succedere fra un attimo, un'ora, un giorno... tanto che non presto attenzione a quando sono. Lo yoga ti insegna il valore del qui e ora. Stare nel presente ancora mi riesce difficile, specie quando sono sotto stress, ma ci sto lavorando. Ancora una volta, non mi metto fretta e continuo a impegnarmi. In fondo, per dare frutto un albero ci impiega un mucchio di tempo, no?
Ho anche imparato a rilassarmi: non esco più dal centro tutta rigida. La maggior parte delle volte cado dentro me stessa: perdo la sensazione del mio corpo e rimango lì, a galleggiare. Non è male come sensazione.
Non sto dicendo che fare yoga sia la panacea di tutti i mali. Ma è un punto di partenza, o almeno per me lo è stato. Perché mi ha portata ad iniziare un percorso di autoanalisi che continua tutt'ora. A volte è doloroso, a volte è penoso, ma se mi guardo indietro - con tutto che ancora lotto contro l'inazione - vedo che ho fatto un po' di strada.
Se mi confronto con la persona che ero otto mesi fa, posso dire che sono più serena. Non ho risolto tutti i miei problemi, ma li affronto. E non più con la pretesa di una soluzione immediata, stile bacchetta magica. Ma con un obiettivo in mente: migliorarmi.
Diventare un essere umano più sereno, in grado di godersi la propria vita e il proprio tempo come merita di essere goduto, senza ridurlo a una palude d'ansia e frustrazione. Se devo essere sincera, la meta è ancora molto lontana: per certi versi sono peggio di una cozza, io. Sto arroccata nei miei schemi, dietro le mie mura e da lì non mi smuovo. E le mie fobie, quando stuzzicate, conservano ancora tutta la loro potenza. Mi piacerebbe dire il contrario, ma, visti gli ultimi episodi, non hanno ancora perso la loro presa su di me. Però non ho più voglia di subirle. Non sono più così convinta che la risposta giusta sia non ci posso fare niente.
Per adesso, direi che va bene così.

venerdì 20 giugno 2014

Buran - Davide Mana

Ho avuto l'onore di ricevere l'ebook in anteprima - e sì, mi sto bullando - e ora sono qui a parlarvene.
Precisiamo che a me lo stile di Davide piace moltissimo.
Nelle produzioni saggistiche - quelle che lui definisce 'agili volumetti' - è, in una parola, divulgativo: è semplice senza essere elementare e informativo senza essere noioso. Che parli di esploratori, di criptidi, di tempo geologico o di triadi cinesi - tanto per citarne alcuni - Davide ti rende accessibili le sue - notevoli - conoscenze e ti invoglia a saperne di più.
Quando si applica alla narrativa, sia in italiano che in inglese, è altrettanto bravo. Non è un mistero che io sia una fan della prima ora di Aculeo e Amunet, ma ho trovato altrettanto divertenti e ben scritti Tyrannosaurus Tex, Dalle colline con la piena e Blooper, tanto per citarne due.
Devo dire che - fatti salvi Aculeo e Amunet - Buran è, in assoluto, la sua prova più riuscita.
Almeno, quella che mi è piaciuta di più.
Perché?
Perché Buran è epico. Non è tanto per quel che succede (è epico anche quello, intendiamoci: la missione è portata avanti da quattro cosmonauti alla prima esperienza e decisamente attempati su una navetta vecchia di vent'anni): quel che ho trovato epico è il senso di disperata resistenza, di lotta contro l'inevitabile, che percorre tutto il racconto. Non a caso la navetta è battezzata Dignità.
In un mondo ormai alla canna del gas, con le riserve petrolifere allo zero e tutti i problemi che questo comporta, con la diffusa mentalità che la cultura sia inutile, sorpassata, un fardello da eliminare al più presto, trovo epico che ci siano persone che dicono no, che si organizzano da privati cittadini per portare a compimento una missione, ossia recuperare la sonda Raleigh, che, inaspettatamente, torna a casa dalle nubi di Oort. Epico è il convergere di nerd astrofili, grandi vecchi della NASA che ancora sanno sognare, semplici cittadini che danno il loro sostegno, epica è la storia di una navetta abbandonata dallo stato che l'ha finanziata e salvata solo dai tecnici che l'hanno costruita e che si sono rifiutati di smantellarla. Storia vera, fra l'altro.
È la lotta di Davide (quello biblico!) contro Golia, del granello di sabbia che si rifiuta di farsi schiacciare dal meccanismo e di tanti granellini di sabbia che, tutti insieme, il meccanismo lo inceppano.
Leggere questa storia ti fa sentire, contemporaneamente, sollevato e infuriato. Sollevato perché nella finzione i granellini vincono (beh, fino a un certo punto, ma ci arrivo dopo), infuriato perché nella realtà, i granellini sono ancora tutti dispersi in giro e il meccanismo il sta schiacciando.
Perché purtroppo la mentalità che vede la scienza e la cultura come superflue è sempre più diffusa, a un livello capillare, nella società. In alcuni paesi di più in altri meno, ma, diciamoci la verità, qui in Italia è tragica. Il laureato - vent'anni di studi, iperspecializzato - a tirare a campare in un call center e l'idraulico - che forse ha finito la scuola dell'obbligo - in giro con le tasche piene e l'aria di chi ha fatto la scelta furba.
E quanto al finale... posso dirvi che è lasciato aperto. E che considerarlo un lieto fine o un finale tragico dipende da voi. E dalla fiducia che avete nel genere umano.
Leggetelo, ne varrà la pena.
By the way, alcune delle cose che succedono in Buran, scritto nel 2006, si sono avverate:
  1. un disastro nucleare in Giappone - nel 2011 c'è stata la tragedia di Fukushima
  2. lo smantellamento del programma Space Shuttle da parte della NASA nel 2011
  3. il ritrovamento, nel 2013, di una navetta Buran che gli operai avevano occultato in un hangar abbandonato anziché smantellarla
  4. il ritorno della sonda ISEE3/ICE e la sua "gestione" da parte di un gruppo di nerd dello spazio altamente specializzati - la Planetary Society -, nel 2014
  5. la crisi economica che ci ha schiaffeggiati tutti nel 2009.
Cinque non è poco, direi.

giovedì 19 giugno 2014

Io tre euri glieli ho dati

Wikipedia ha lanciato una nuova raccolta fondi. Si può donare tramite carta di credito o Paypal, scegliere se fare una donazione mensile, oppure una tantum. Si può donare da un minimo di tre euro, non è una cifra proibitiva.
Io Wikipedia la uso. E trovo che sia  un progetto meraviglioso e molto importante: Wikipedia è di tutti ed è giusto contribuire.
Quindi, io i miei tre euri li ho dati.
Quanto a voi, fatevi un favore: mettetevi una mano alla coscienza... e l'altra al portafoglio!


Cat Daddy - What the World's Most Incorrigible Cat Taught Me About Life, Love, and Coming Clean

I control freak non amano essere impreparati. 
Il problema è che devi affrontare un mondo che ti spaventa, perché pieno di casualità e incidenti, del tutto privo di ordine e (spesso) anche di logica. 
Ti ci senti perso, in quel mondo.
Ti senti piccolo, tenero e molto appetibile per grossi predatori zannuti. Il famoso vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro? Oh, non rende proprio l'idea!
Quindi, il tuo problema principale è proteggerti.
Vuoi uno scudo. Vuoi un sistema di difesa. Se più d'uno è meglio.
In una parola, hai bisogno di essere preparato. Quanto più sei preparato, anche nei confronti delle circostanze più improbabili (e intendo improbabili in senso statistico, perché spesso classifichi il "cosa mi può accadere?" in termini di probabilità), quanto meno ti senti vulnerabile.
Nel mio caso, dato che oltre a essere una control freak ho anche la sindrome della prima della classe, questo significa che mi serve un manuale per qualsiasi cosa.
Ne ho bisogno. Gandalf aveva il suo bastone, io ho i miei manuali e wikipedia.
Ho la compulsione a informarmi. Capire. Sapere. Studiare.
Quando Mina è arrivata in casa, la prima cosa che ho fatto dopo aver acquistato tutti gli ammennicoli necessari - cassettina, ciotole, giochini, ecc - è stato comprare un manuale. Il titolo è esemplare: Cosa fare se il tuo gatto...
Perfetto, no? Qualsiasi cosa fosse successa, avevo qualcuno che poteva dirmi cosa-diavolo-fare.
La spiegazione razionale era: non ho mai avuto un gatto, vorrei evitare di commettere errori. La verità profonda era che  senza un supporto, senza poter attingere alla conoscenza di qualche esperto, mi sentivo persa. (L'altra cosa che ho fatto è stata iscrivermi a un forum specializzato.)
Questa è la ragione per la quale ho scoperto My Cat From Hell.
My Cat From Hell è un reality che va in onda su Animal Planet e mostra il comportamentista Jackson Galaxy alle prese con gatti difficili. Gatti aggressivi, gatti che sporcano in giro, gatti che fanno del male e si fanno del male. All'inizio avevo un po' di dubbi, visto quel che è successo con Dog Whisperer, ma ci ho messo molto poco a capire che l'approccio di Galaxy - sì, si chiama legalmente così - è del tutto differente da quello di Millan.
E se i primi tempi guardavo cercando di assorbire input perché 'metti che la Mina faccia così e cosà', dopo un po' ho iniziato a cambiare atteggiamento: non guardavo più per essere preparata ad eventuali disastri-circostanze sfavorevoli-drammi-imprevisti. Guardavo per imparare a rendere la mia gatta un animale più felice.
Mi sono fatta fuori cinque stagioni in pochissimo tempo.
Quando ho scoperto che esisteva anche questo libro, ovviamente l'ho comprato. E ti credo, pensavo fosse un manuale! Anzi, IL manuale!
L'ho finito ieri sera. Piangendo senza ritegno.
Cat Daddy non è un manuale.
E non è nemmeno la storia dell'amicizia fra uomo e gatto.
Cat Daddy è sostanzialmente l'autobiografia di un essere umano pieno di difetti, debolezze, complessi e problemi. E no, non è una lettura facile, né piacevole. Se vi aspettate un libro con gatti tenerosi che fanno ronron e salvano l'umano di turno, o con gatti matti che danno sfogo a tutta la divertente pazzia felina, lasciate perdere: Galaxy non ha pudore nel raccontare i suoi eccessi, il suo essere fondamentalmente un addict (droga, alcool, psicofarmaci e cibo, in sequenza). Non si vergogna - o forse sì, ma lo fa lo stesso - di raccontare quanto in basso sia arrivato e vi posso garantire che leggere alcune cose è imbarazzante.
Leggendo sono arrivata a pensare che essere addict è una forma mentis indipendentemente dalla sostanza di cui scegli di abusare. Un eroinomane non è differente, come atteggiamento, da chi, per dire, fa shopping compulsivo. Il problema è che non sei equipaggiato per affrontare il mondo esterno: ti manca qualcosa e colmi quell'assenza con la dipendenza. Hai bisogno di un puntello e poco importa che questo sia cocaina, valium o la compulsione a comprare alle televendite. Un addict - oltre a un sacco di altri meccanismi tipici - è anche e soprattutto un egoista: i suoi problemi, i suoi disastri, le sue insoddisfazioni contano molto di più di quelle di qualsiasi altro. Il disagio e la sofferenza sono così profonde che ti rendono totalmente incapace di empatia. Senza contare che, proprio come i gatti con problemi di territorio che si ritirano nella lettiera puzzolente perché almeno quella è totalmente loro, c'è una sorta di rassicurante piacere nell'ammantarsi dei propri problemi. Quelli, almeno, sono tutti tuoi e li conosci.
E, all'inizio del libro, Jackson è proprio così: avvolto nei suoi problemi e nei suoi - contemporanei - sogni di gloria. Nell'arco di dieci anni, il mondo, l'universo, il destino o il karma, fate un po' voi, prende questa persona, la distrugge fino alle fondamenta e, nello stesso tempo, gli mette in mano tutti gli strumenti per ricostruirsi. Il lavoro in un rifugio per animali - scelto perché poco impegnativo e poco stressante - diventa il primo gradino di una lunga scala che lo porta fino a essere Cat Daddy, a superare - con riluttanza, con errori tragici e ricadute prevedibili - il suo egoismo e a capire cosa significa dedicare se stesso agli altri. E un ruolo fondamentale in tutto questo ce l'ha Benny.
Benny, che una mattina viene scaricato senza troppe cerimonie proprio in braccio a Jackson, che in quel momento è di turno. 
Benny, che gli viene affidato perché almeno una volta tutti i ragazzi che lavorano al rifugio devono fare da foster parent a un gatto e Jackson ancora non l'ha fatto.
Benny, condannato all'amputazione di una delle zampe, che viene riabilitato quasi per scommessa.
Dopo anni di convivenza, quando Jackson ha già una discreta fama di comportamentista (dopo essere stato licenziato dal rifugio si è 'messo in proprio' con l'aiuto della direttrice stessa), Benny, che ha sempre avuto problemi comportamentali, comincia a diventare ingovernabile. Quel che è peggio, non risponde a nessuno degli approcci che Jackson tenta. Tutto ciò che funziona alla grande con i suoi clienti è un fallimento nella sua stessa casa.
Bel bagno di umiltà, no?
Alla fine, Benny, proprio come fanno tutti i gatti, costringe Jackson ad arrendersi e gli dimostra una verità semplice e complessa al tempo stesso.
Se vuoi capire un gatto, devi pensare come un gatto. 
Applicare parametri umani al suo comportamento non è solo sbagliato: è dannoso. E comunque non funziona. I gatti non impareranno mai a parlare un linguaggio umano - probabilmente perché non interessa loro - sono gli uomini che devono imparare a parlare il linguaggio felino.
Il libro non arriva a raccontare il successo, la televisione, la fama.
Perché Jackson è diventato famoso, anche se probabilmente in un campo che mai avrebbe immaginato. Il libro parla di Benny e finisce con Benny, nell'unico modo in cui una persona che ama davvero il proprio gatto può dimostrare sul serio i suoi sentimenti: lasciandolo andare per non condannarlo a un'inutile agonia.
Sì, piangevo senza ritegno. Ma è stato bello.

mercoledì 18 giugno 2014

Un punto di vista maschile: Se vuoi davvero capire un uomo...

Per la prima volta la Parietaria ha un ospite.
Un po' di tempo fa mi è stato chiesto: "facciamo scambio di post?"
E io, che, fra le altre cose, mi sentivo in colpa per lo stato di abbandono in cui versava il blog, ho risposto: "Facciamolo!"
Così - in modo tutt'altro che epico - è nata l'iniziativa post scambievoli: ogni tanto -  non abbiamo definito una  cadenza regolare - troverete post non scritti da me.
Questo è il primo.
Ecco a voi Marco!


Io leggo qualsiasi cosa. Davvero. Non esiste stampato che non passi al vaglio della mia rete neurale senza essere guardato, letto, interiorizzato.
È più forte di me, lo è sempre stato e, credo, sarà così per sempre.
Mia madre racconta che, quando ero bambino e prendevamo l'autobus, io mi ostinavo a non voler sedere: c'era da leggere così tanto su quei tettucci, tra pubblicità di montascale, merendine e altre cose per me allora imperscrutabili, che percorrevo il corridoio centrale del mezzo senza nemmeno chiedere permesso pestando i calli degli altri avventori.
Cosa c'entra tutto questo con la comprensione maschile?
In realtà questo preambolo si ricollega al vecchio post intitolato Per capire veramente una donna…, in cui Valentina asseriva di essere schiava della parola scritta e raccontava del contenuto della sua borsa che conduce, inevitabilmente, alla conoscenza dell'universo femminile a cui questa appartiene. La borsa, non Valentina.
Non appena letto il suo post da bravo maschio mi sono subito detto E un uomo da che lo capisci? E subito mi si è accesa una lampadina. Più che una lampadina è stato un disagio: le tasche dei miei pantaloni sono sempre piene di qualsiasi cosa che mi impediscono di sedere comodamente, ma non sia mai che me ne privi. No, le tasche dei pantaloni si rivoltano solo davanti l'ineffabile e inespressivo oblò della lavatrice il cui giudizio pulente già a quaranta gradi può essere fatale.
Mi sembra perciò giusto indagare ora cosa c'è in queste benedette tasche e confrontare le esperienze con la padrona di casa del blog.
Se affondo la mano nella tasca destra trovo tre grossi sassi tondeggianti. Imbarazzante: qualcuno si sarà chiesto perché celi una grossa lepre nei pantaloni.
La sinistra, più accessibile, si dimostra maggiormente sorprendente. Superata la barriera delle chiavi di casa, trovo un piccolo involto composto da tre scontrini. Uno della gelateria (cono da € 1.50 due gusti e doppia panna), uno della grossa libreria palcoscenico delle mie pause pranzo e infine uno illeggibile. I tre pezzetti di carta contenevano dei semi. Dove, come e quando li avrò presi? O qualcuno me li avrà messi lì? Propendo maggiormente per questa ultima ipotesi.
Ma c'è altro che mi pungola; una chiave a brugola di media misura. Insomma non sarà un cacciavite sonico ma è altrettanto versatile: per riavvitare i bulloni della bici, le ruote dei carrelli delle nonnette in difficoltà, rimettere in riga i mobiletti di fabbricazione svedese e per fare il fico di quelli sempre pronti all'azione quando qualcuno chiede proprio Ah se avessi almeno una brugola per risolvere questo problema. Ora, non so, ditemi voi, ma non penso che dalle mie tasche si capiscano cose belle di me.

martedì 17 giugno 2014

Happily addicted to reading

L'altro giorno ho detto, causando l'irrefrenabile ilarità del mio amico Marco, che non avrei più comprato libri fintanto che non avessi esaurito i non letti nel Paperwhite (il giorno dopo ho comprato La Via dei Re di Brandon Sanderson, ma era in offerta su Amazon a 1.99€, non lo potevo proprio lasciare lì. Fra l'altro, è stato Marco a passarmi il link, perché io non mi ero accorta dello sconto. Non so se ringraziarlo o trattarlo come un sabotatore di buone intenzioni).
Comunque sia, ho deciso di fare una lista.
Io amo le liste. Scriverle mi mette sempre in un mood piacevole: è mettere in ordine il caos, operazione che il mio io da control freak gradisce molto. D'altra parte, non è detto che le rispetti sempre punto per punto (in pratica non accade mai), ma fa parte del gioco: in fondo, la me stessa incontrollabile deve far pur pesare la sua presenza, no?
Comunque, ecco qua, la mia lista di lettura per i prossimi mesi:
  1. finire la serie Dresden Files di Jim Butcher. Quindici libri in tutto e sono a metà del quarto. Un mix di urban fantasy e poliziesco, con un protagonista che ricorda i detective hard boiled anni '40 e che è anche un mago. Sfigato quanto basta, cinico quanto basta, con la preoccupante tendenza a finire coinvolto in situazioni molto più grandi di lui.
  2. iniziare e finire Il ciclo di Ambra di Zelazny. Da quando ne ha parlato Davide ho una voglia matta di leggerlo. Dieci volumi in tutto, mica cotiche.
  3. iniziare e finire il Ciclo del Nuovo Sole di Gene Wolfe. Anche di questo ha parlato Davide e, come al solito, mi ha fatto venir voglia di leggerlo.
  4. i primi due volumi della trilogia Magic Ex Libris di Jim C.Hines (Libriomancer e Codex Born. Il terzo volume, Unbound, non è ancora uscito)
  5. la Prospero's Daughter Trilogy di L.Jagi Lamplighter (Prospero Lost, Prospero in Hell, Prospero Regained)
  6. Leggere gli altri volumi del Ciclo di Pern di Anne McCaffrey. Il primo, Il volo del drago, mi è piaciuto da morire, quindi non vedo l'ora di tornare fra i dragonieri di Pern.
  7. Finire The walrus and the warwolf di Hugh Cook, in cartaceo. Amo comprare l'usato su ebay, specie quello difficile da trovare. Voglio capire se è vero che un certo tipo di scrittura è da donne o no. Per ora il protagonista - un immane cazzaro - mi fa morire dal ridere.
  8. Leggere Eroi dei due Mondi e Buran di Davide, l'ultimo uscito per la neonata MoonBase Factory, Blooper me lo sono divorato, ne parlerò presto. Ovviamente, se - scodinzola speranzosa - uscisse un'altra avventura di Aculeo&Amunet, essa avrebbe un posto in caldo nella reading list.
  9. finire Cat Daddy - What the World's Most Incorrigible Cat Taught Me About Life, Love, and Coming Clean di Jackson Galaxy. Mi piace molto il suo programma My cat from hell, mi è stato utile in diverse occasioni perché la mia Mina è  una gattina dolcissima, ma con un passato turbolento che l'ha resa paurosa. Non è la classica gatta che fa le fusa a tutti e si struscia su chiunque: è timida, spaventata, va trattata con delicatezza e pian piano rassicurata. Per stupido che possa sembrare, vedere come un professionista approccia determinati comportamenti, ne spiega le cause e quali espedienti usa per correggerli ha fatto la differenza. Non di tanto, abbiamo ancora molta strada davanti, ma mi ha già impedito diverse volte di assumere atteggiamenti sbagliati.
Ovviamente, in tutto questo ci sono un po' di letture "di documentazione", che non sto ad aggiungere ma che non sono meno impegnative e un po' di manuali di scrittura, perché ripassare non fa mai male - da poco ho ripreso in mano Mugging the Muse.
In fondo, però, il bello di leggere è che ne hai a sufficienza per molto più di una vita!

lunedì 16 giugno 2014

Racconta scrivi ama

Semplice, vero?
Io ci ho messo anni per arrivarci.
Anni di storie abortite perché pianificate con troppo dettaglio e troppo in anticipo, ingabbiate a forza in schemi troppo rigidi e definizioni che capivo (se andava bene) solo a metà.
Anni di frustrazione e ancora ne porto i segni addosso. Sono piccole, ma sono le mie cicatrici e non ho più voglia di nasconderle come se fossero qualcosa di poca importanza.
Questa fase è durata tanto, è durata troppo.
E poi, non so bene come sia successo, ci sono arrivata. 
Non l'ho formalizzato in un aforisma, ma, in modo ancora più semplice, mi sono limitata a farlo.
Scrivere senza pensarci su.
Scrivere solo per il piacere di farlo, mandando alle ortiche le regole dei manuali e i patemi da "ma cosa dirà chi mi legge?" (era seguito subito da "chi vuoi che ti legga, cretina?").
Scrivere per raccontarmi una storia.
Scrivere come leggere, per voltare la prossima pagina e scoprire che cosa succede poi.
Ha funzionato.
Per sgombrare il campo da fraintendimenti, io i manuali li leggo. E li studio (non è scontato che sia la stessa cosa). Prendo pure appunti. In casa (e nel Paperwhite) ne ho tanti - alcuni li ho trovati utili, altri meno. Non li idolatro, non ci sputo sopra: mi limito a prenderli cum grano salis.
Ma per me il primo passo, la prima stesura, va fatta in piena e assoluta libertà.
Non è un'opzione fra tante, non ho un'altra scelta. Io o faccio così, o non funziono.
Perciò, questo è il mio consiglio.
Dimenticatevi i temi, gli archi di trasformazione, i viaggi dell'eroe e seguite l'istinto. Divertite voi stessi: scoprite i vostri personaggi, scoprite il loro mondo.
Siate curiosi. Siate esploratori. Osate. Mescolate generi diversi, non fuggite dalle stramberie, piuttosto fateci amicizia e nuotate in mezzo a loro. Scoprirete che non mordono, raccontano le barzellette. Escludete il mondo, non pensate al pubblico, a quel che va di moda, a quel che ha più possibilità di attrarre un editore. Scrivete per voi, e per voi soli, raccontatevi la storia che vorreste leggere. Godetevi la sensazione di non dover rendere conto di niente a nessuno.
Sentitevi liberi. Non c'è niente di meglio.
Portate a casa la prima stesura, mettete quel punto finale e amate il processo che vi porta a farlo. Amatelo ogni secondo che vi impegnerà, perché dopo le cose cambieranno.
Dopo dovrete essere rigorosi, critici, ferocemente pignoli e pretendere da voi stessi più di quanto il lettore più orrendamente maldisposto nei vostri confronti potrebbe mai fare.
Dopo vi preoccuperete della gestione del punto di vista, del viaggio dell'eroe e dell'arco di trasformazione del personaggio.
Dopo vi porrete il problema del tema portante e vi farete venire la nausea a forza di lavorare sulla struttura.
Dopo dovrete verificare ogni vite e ogni rivetto della vostra ambientazione, controllare ogni ruota dentata e ogni collegamento, più e più volte.
Dopo dovrete fare schemi, piani e diagrammi a blocchi.
Dopo dovrete smontare la vostra storia, scinderla nei in tutti i suoi elementi e poi ricombinarli insieme nel modo più efficiente. Tirarla, spingerla e pressarla per vedere fino a che punto è solida.
E tutto dovrà essere perfetto, a prova di bomba, non ci dovranno essere né infiltrazioni, né ruggine. Non potrete risparmiare sul lubrificante, perché questo meccanismo dovrà funzionare.
Lo dovete a voi stessi, alla vostra storia, a chi vi regalerà il proprio tempo (e, in alcuni casi, il proprio denaro) per leggervi. E anche perché, detto fuori dai denti, la rete è una giungla e là fuori ci sarà sempre qualcuno che proverà a farvi le pulci, si riterrà in dovere di farvi la lezione, di trattarvi come una merda perché non vi siete documentati abbastanza, o perché non avete gestito bene il punto di vista, o, semplicemente, perché lui, la vostra storia, l'avrebbe senz'altro scritta meglio. Peccato che non sia stato capace di pensarla. In ogni caso, dato che così è se vi pare, perché offrire il fianco a questi personaggi?
Sembra un mucchio di lavoro? Lo è.
Ma c'è un (piccolo) lato positivo: se avete fatto i compiti a casa, vi accorgerete che tutte le ore spese a leggere e studiare non sono andate sprecate. Non sono andate sprecate affatto, perché nel mettere insieme il vostro scritto avrete usato, anche senza accorgervene, anzi, la maggior parte delle volte proprio senza accorgervene, gli strumenti che avrete acquisito e le abilità che avrete forgiato durante lo studio e i ripetuti tentativi di creare una storia (perché tutti abbiamo alle spalle i ripetuti tentativi di creare una storia. Di solito sono imbarazzanti. I miei lo sono).
Secondo Brandon Sanderson (a proposito, le sue lezioni di scrittura sono disponibili on line e sono davvero ben fatte) ci sono scrittori che procedono creando un outline dettagliando molto in fase di pianificazione e ci sono scrittori che utilizzano l'intero first draft come fosse un outline.
Gli uni non sono meglio degli altri. Sono modi di procedere diversi.
Io appartengo al secondo gruppo. Adesso sono in grado di dirlo, ma  ci ho messo anni per accettare che andava bene anche così. Tutte le persone intorno a me avevano un approccio del primo tipo e portavano a casa storie su storie. Io, per quanti sforzi facessi, neanche una.
Risultato: era colpa mia, avevo per forza qualcosa che non andava.
Non ero una scrittrice doc, plain and simple.
Adesso so che non esiste un modo giusto o uno sbagliato: esiste solo il modo che funziona per te. Se lo usi e scrivi è giusto. Se lo usi e non scrivi è sbagliato. 
È come un paio di scarpe: ti deve calzare a pennello, altrimenti camminare è una tortura.
Salvo rari casi - e il manoscritto cui sto lavorando ora è uno di questi - non so mai all'inizio di cosa parlerà la storia. Non conosco la trama - se non come uno spunto iniziale, né riesco a dire a priori quale sarà il motore che la spingerà avanti. Se sono fortunata, lo scopro cammin facendo e la porto a conclusione. Se sono sfortunata - e mi è capitato - sono costretta a lasciarla stare fino a che non capisco qual è il nocciolo della questione. Una storia è rimasta bloccata in quel modo per due anni, in attesa che, il mese scorso, arrivasse il click nella mia testa. Ho trovato la chiave, l'ho infilata nella toppa e la porta si è aperta. Adesso la storia ha tutte le carte in regola per ricominciare a camminare come, anzi, meglio di prima.
Ho una lista di priorità, non posso lavorarci subito, ma so che quando lo farò avrò ben chiaro come maneggiarla e dove mi porterà.
Sono davvero un essere strano: sono una maniaca del controllo, eppure ho sprecato anni tentando di usare un approccio alla scrittura ultra-controllato e che con me non funzionava. Sono una maniaca del controllo e riesco a portare a conclusione una storia soltanto nella libertà più assoluta, con il controllo che non è proprio contemplato. 
Forse anche di questo è responsabile l'altra me stessa. Forse anche di questo dovremmo parlare, sedute al tavolino e di fronte alla famosa birra. 
Maledizione, mi toccherebbe dirle che ha ragione lei.

venerdì 13 giugno 2014

Un silenzio assordante

Sono quasi due mesi che in questo blog non si muove una foglia.
La Parietaria è rimasta congelata nel tempo, immobile, in attesa di... non so bene nemmeno io di cosa.
In questi mesi sono successe molte cose: Once Upon A Time è finito senza che io completassi i riassunti, la Mina è diventata la signora della casa e ha pensato bene di farci prendere uno spavento da morire finendo sotto flebo d'urgenza, io continuo a fare yoga e a cercare di venire a patti con una me stessa interiore che è del tutto incontrollabile (la cosa peggiore, per una control freak come me, mi coltivo la serpe in seno. In senso letterale. Forse dovrei semplicemente sedermi a un tavolino con lei e offrirle una birra, giusto per discutere delle reciproche differenze). 
Il lavoro continua a essere scarso e la gente continua a cercare di non pagare.
Continuo a leggere. In effetti, avrei un sacco di libri di cui parlare. Quasi tutti in inglese, va da sé. E ho una lista di lettura in costante allungamento.
E continuo a scrivere e pensare storie. Ho rallentato da quando è arrivata la gatta, perché la sera - il momento che prima era dedicato alla scrittura - adesso è dedicato a lei. Cioé, più che altro se l'è preso, obbligandomi, a forza di miagolii, palline messe in mezzo ai piedi e penne scippate durante la scrittura, a darle retta.  Ho scoperto che i gatti hanno un modo tutto loro di fare sì che le cose vadano come vogliono e, se volete sapere che cosa ne penso... secondo me sono davvero alieni che cercano di dominare il mondo. Perfino a distanza, perfino adesso: comincio a parlare di scrittura e zac! lei scivola quatta quatta nel discorso e ne diventa il centro!
Quindi, torniamo alla scrittura: le idee ci sono. Sono tante. Sono per più storie. La cosa mi entusiasma letteralmente: sembrano zampillare, incastrarsi una nell'altra... è come se stessi componendo diversi puzzle contemporaneamente. Non ve lo nascondo: è fico!
La mia fonte di divertimento principale - quella in piena stesura - ha raggiunto e superato le duecentomila battute. Il conto non è aggiornato, perché la sto scrivendo con carta e penna: niente Scrivener, stavolta, se non a posteriori, giusto per avere una copia di sicurezza. Giro con il manoscritto in borsa, in una busta trasparente che sta cadendo a pezzi, e appena posso vado avanti.
A che punto sono?
Avete presente quando siete sulle montagne russe, all'inizio del percorso, che i vagoncini affrontano lenti la prima salita? Più vi avvicinate al culmine e più anticipate - pregustate - il senso di vuoto nello stomaco e la velocità che vi aspettano di lì a pochi secondi. Io sono a quel punto lì: mi sto approssimando al culmine della salita, sono ormai in cima. I pezzi del rompicapo con il quale la mia protagonista ha a che fare sono stati mostrati (quasi tutti) e fra poco lei inizierà a capire come metterli insieme... e la storia scivolerà a tutta birra verso il rush finale e l'epilogo.
Poi ci sarà un mucchio di lavoro da fare, visto che ho trascurato la documentazione quasi del tutto, ma me ne preoccuperò quando sarà il momento.
Questa è una delle cose che sto - lentamente e con fatica - imparando a fare: preoccuparmi quando serve, non in anticipo (e non solo per quel che riguarda la scrittura).
Non è facile. 
Specie quando hai un cervello che ti propone migliaia di varianti apocalittiche - una peggio dell'altra - di ciò che potrebbe accaderti.
In questi mesi si è messo in moto un processo di ripensamento del mio intero modo di essere. E dico che "si è messo in moto" perché non è nato da un atto di volontà mia. Forse l'altra me stessa - quella incontrollabile - ha qualcosa a che fare con tutto questo, non lo so.
Se fossi un personaggio, si potrebbe dire, in termini manualistici, che il mio sistema di sopravvivenza interiore mostra tutte le sue crepe ed è ora di cambiarlo. Ma non sono un personaggio - anche se potete scommettere che quel che mi sta capitando mi servirà, prima o poi, in una storia - e questa sorta di "revisione" va avanti per conto suo, trascinandomi con sé, volente o nolente - più che altro nolente.
Così, dopo mesi di strappi e bocconi,ho pensato che tanto vale fare un tentativo e smettere di essere la rigida quercia: provare a essere il flessibile bambù, così, tanto per cambiare. 
Per una come me è più semplice a dirsi che a farsi, ma magari mi piace, nella vita non si sa mai.
Comunque, sono tornata. Anche se sto facendomi il tagliando, sono qui.

venerdì 18 aprile 2014

Once Upon A Time S03E15 - Quiet Minds

Ci sono voluti quattro episodi, ma... sì, Rumplestiltskin è ancora vivo.
Non si sa come, non si sa perché, ma è vivo e vegeto. A quanto pare non c'è tutto con la testa (e questo Emma&Co. non lo sanno), ma oh yesss, alive and kicking.
Al contrario di Neal, che nessuno ha ancora visto.
Mentre, da Granny, i nostri eroi si domandano come sia possibile - Hook si dice sicuro che Neal c'entri qualcosa, perché desiderava così disperatamente tornare dalla sua famiglia che può aver fatto carte false per riportare in vita il padre -, Regina mette in chiaro che poco importa chi l'abbia riportato e come: stava nel sotterraneo della strega, quindi la cosa più importante è capire cosa facessero quei due insieme. così, mentre gli altri devono darsi da fare a cercarlo, lei vuol tornare nella fattoria della strega e vedere se riesce a trovare qualche indizio magico.
E a proposito di strega... quella è incazzata nera! Cerca di evocare Rumplestiltskin con il potere del pugnale... e non funziona! L'Oscuro le è scappato e sa parecchie cose. Così, incarica una scimmia alata di trovarlo.
La prima tappa di Emma&Co. è da Belle: le dicono che l'aMMore suo è ancora vivo e di tenere gli occhi aperti perché è probabile che approdi da lei. Sorprendentemente, Hook si offre di rimanere ad aiutarla... e Belle gli dice "Ma che ti sei fumato? Hai tentato di uccidermi" "Sì, vabbé, erano circostanze un po' estreme", fa lui. "Due volte!"
Hook le fa quel sorrisino un po' storto che stende morta buona parte delle fan e le dice di considerarlo il suo modo di far pace.
Detto questo... si torna al passato. Neal e Belle sono tornati al Castello di Rumplestiltskin, in cerca di un modo per resuscitarlo. Per cercare nella biblioteca, accendono le candele su un vecchio candelabro et voilà: le fiamme compongono un viso. Signori e signore, monsieur Lumiere.
Nel presente, intanto, mentre Hook e Belle cercano un qualsiasi indizio che possa spiegare come ha fatto l'Oscuro a sopravvivere, una delle porte del negozio inizia a sbattere violentemente. Belle si precipita, convinta che sia Rumplestiltskin... ma quando la porta si spalanca (ed è la porta del cesso) quel che ne esce fuori è Neal. E non è in gran forma.
Intanto, Emma torna a casa da Henry, gli porta la colazione e lo smolla a pescare con Leroy e sette nani. Questo Henry è parecchio più sveglio di quello pre-maledizione e le dice chiaro e tondo che, sì, a pescare ci va, ma che Emma non pensi di farlo fesso: l'ha capito che non sta lavorando a un caso e che Storybrooke è un posto parecchio strano. In definitiva, sa perfettamente che lei gli nasconde qualcosa.
Giusto in quel punto - dopo che lui le ha detto "o mi dici tutto o me ne torno a NY" e che lei gli ha promesso di farlo, ma non subito, e chiesto di fidarsi di lei - le squilla il cellulare.
E chi sarà mai?!
Considerato che un attimo dopo la vediamo correre al capezzale di Neal in ospedale, facile capire chi fosse. Comunque, Neal viene brevemente messo al corrente che: 1. è passato un anno, 2. suo padre è tornato, 3. Emma si ricorda di lui, ma Henry no.
In realtà, c'è di peggio: Neal ha, sul palmo della mano destra, una bruciatura inquietante, una specie di simbolo, del quale nessuno sa nulla. Ovviamente, Bookworm Belle viene incaricata di fare ricerche e...
...rieccoci nel passato. Belle e Neal sono nella biblioteca e chiedono aiuto a Lumiere. Il quale non è proprio dispostissimo ad assecondarli, visto e considerato che è rinchiuso in quella prigione di cera per via di un certo accordo con Rumplestiltskin. Neal lo prega di aiutarlo a resuscitare l'Oscuro, l'unico in grado di riunirlo con la sua famiglia, Belle lo rassicura che Rumplestiltskin è cambiato e che, di certo, se li aiuterà, lo libererà dalla sua maledizione... e Lumiere acconsente. Li guida a trovare un libro che libro non è: è un contenitore, nel quale c'è una strana chiave. Una chiave decorata con lo stesso disegno che ora è inciso sul palmo di Neal. La chiave che apre il sotterraneo dell'Oscuro. E, guarda la coincidenza, lui può guidarli proprio dove questo fantomatico sotterraneo si trova.
Ma... dopo che Neal e Belle sono usciti dalla stanza, qualcosa di verde emerge dalle ombre. Non avrete mica pensato che tutto fosse così semplice, eh? A quanto pare, Lumiere è d'accordo con la strega e sta guidando i due dritti in una trappola.
Ed ecco, nel presente, Zelena bussare alla porta di Sua Melensaggine. La quale è spaventata perché non sente più muovere il bambino e ha telefonato all'amichetta sua. Invece di andare a fare una stracazzo di ecografia. Quanto può scavare negli abissi della stupidità questa? Quanto ancora?
Comunque, Zelena spiega che i bambini si muovono meno subito prima del parto, che forse lei è più vicina al termine di quanto pensi e le somministra del succo di arancia che s'è portata da casa. Ora, ma solo io trovo allucinante che Sua Melensaggine si fidi cosi? No, ditemelo. E solo io trovo che Zelena sia inquietante da morire? I am not letting you have this baby without me? Seriamente?
Ma Sua Melensaggine nisba, oh. Testa dura...
E veniamo alla mia parte preferita. Quella per la quale vale la pena guardare - e bene! - l'episodio. Anche riguardarlo un paio di volte.
Perché Regina è fuori dalla fattoria della strega quando viene bersagliata con una freccia. Lei la acchiappa al volo (oltre che Evil Queen è pure ninja) e chi ti esce, con una balestra in mano, da dietro la sua macchina?
Robin Hood. E quanta chimica c'è fra 'sti due? A tonnellate. La prima volta che gli sceneggiatori hanno alluso a un possibile legame ho storto il naso, ma... mi devo ricredere. Sono diventati la mia coppia preferita. Comunque, a parte i miei vaneggiamenti da fangherl, i due fanno comunella e si preparano ad esplorare la casa della strega.
Intanto, in ospedale, Hook è stato lasciato a sorvegliare Neal e i due hanno modo di parlare. Neal lo ringrazia per aver riportato Emma, Hook risponde che lui avrebbe fatto lo stesso. Neal domanda come ci si sente, a essere un eroe, dopo essere stato un pirata tanto a lungo. Hook risponde che è un ruolo poco familiare e ribatte chiedendo come ci si sente ad essere un cattivo. Neal dice "e che, mò il cattivo sono io?".
"beh, se hai riportato in vita tuo padre, sospetto che tu abbia usato la più nera delle magie e che tu abbia dovuto pagarne il prezzo".
Neal non risponde, non avendo memoria alcuna di che accidente gli sia successo, ma, dopo che Hook l'ha abbracciato in memoria dei tempi andati, gli permette di fuggire dall'ospedale per unirsi a quelli che cercano Mr.Gold.
Intanto, nel passato, Lumiere guida Neal e Belle verso la famosa cripta dell'Oscuro... e si sa che c'è la fregatura sotto. Una tremenda fregatura.
Zompiamo di nuovo al presente: it's daddy-time. Emma e David van belli belli per la foresta, chiacchierando su quel che Emma intende fare una volta risolta la questione. Soprattutto, con Neal: è chiaro che lui non si rassegnerà tanto facilmente al fatto che Henry non lo ricorda e di lui sa solo che ha mandato in prigione Emma al posto suo e, oltretutto, lei era pure incinta. Inoltre, è chiaro che la parentesi new yorkese di Emma non è finita: a quanto pare, la ragazza è decisa ad andare via da Storybrooke, riportando Henry alla sua vecchia vita.
Mentre i due sono lì che chiacchierano, ecco un urlo. E finalmente... Mr.Gold. Che non pare essere tutto sano ai piani alti. Il nostro cattivo preferito sembra proprio mezzo matto. Dice di sentire delle voci nella testa, a stento riesce a dire che sì, sa chi è la strega. E a quel punto, patapam!, eccoti la scimmia alata. Gold scappa, LOLlo caccia la spada (ma dove l'ha tenuta, finora? non voglio saperlo) e dice che se ne occupa lui e manda Emma all'inseguimento del fuggitivo.
E torniamo alla mia coppia preferita... non c'è niente di utile, nella fattoria. C'è da dire che Regina è insolitamente tollerante nei confronti di Robin: gli permette di parlarle in un modo... che non tollera con gli altri. Lui, manco dirlo, ne è affascinato, al punto tale da offrirle, a scrocco dalla strega, un bicchiere di whisky. Regina accetta, ma, quando lui le porge il bicchiere... ops, guarda lì, il tatuaggio sul polso.
Che fa la nostra Evil Queen? Una cosa che non mi sarei mai aspettata. Se la dà a gambe, lasciando Robin con un palmo di naso e noi fan a sbavare per il prossimo momento che li vedrà insieme.
Nel frattempo, Emma incontra Neal e gli permette di aiutarla a cercare.
Ma torniamo nel passato: Neal e Belle hanno trovato la radura, Lumiere ha spiegato loro come aprirla, ma, quando Neal gli domanda se è sicuro, risponde spazientito che per forza lo è, ha passato almeno duecento anni in quella biblioteca, per l'amor del cielo!
E lì Belle lo sgama. Rumplestiltskin ha costruito quella biblioteca per lei, non tanto prima della maledizione, perciò saranno sì e no trent'anni. Così, Lumiere è costretto a confessare che è tutto vero tranne un particolare: non è stato Rumplestiltskin a ridurlo così. È stata la strega e lei vuole che loro riportino indietro l'Oscuro per poi poterlo controllare con il pugnale. A quel punto, Belle cerca di dissuadere Neal dall'usare la chiave. Gliene dice di ogni: fra l'altro, che Rumplestiltskin non è morto da eroe per venire riportato indietro schiavo del male. Ma niente da fare, Neal deve tornare indietro, costi quel che costi. Belle gli fa notare che il costi quel che costi è anche ciò che aveva pensato Rumplestiltskin nel forgiare la maledizione e che non è che le cose siano andate proprio benissimo. Ma Neal zero. Come aver parlato al muro.
Usa la chiave, il simbolo gli viene marchiato a fuoco sul palmo e oplà, l'Oscuro risorge.
Nel presente, Neal ed Emma cercano di fare un recap del tempo passato: quel che hanno fatto, o non fatto, e lei gli racconta di Walsh, specificando che si è trasformato in una scimmia alata (al che lui risponde che stava per sposare uno scagnozzo malvagio di suo nonno Peter Pan, quindi sa bene come ci si senta).
Proprio mentre lui sta per portare il discorso sui bei tempi andati, ecco che le squilla il cellulare: è Belle che ha trovato qualcosa sulla chiave. E non è qualcosa di bello.
Chiunque la utilizzi per resuscitare l'Oscuro, dà in cambio la sua vita e non c'è modo di scappare. In pratica, Neal dovrebbe essere morto da quel bel po'.
Belle  non ha ancora finito di dirglielo, che Neal si sente male e, per un momento, si trasforma in Rumplestiltskin. Che sta succedendo? Lo sapremo, ma dopo. Perché ora si torna al passato.
Rumple è resuscitato... e Neal cade a terra mezzo morto. Come se non stesse già andando abbastanza male, eccoti Zelena - bella verde - che compare a prendere per il culo il povero Neal, causando l'ira di Rumplestiltskin, che la accusa di aver ingannato suo figlio. Ma lei dice "nooo, chi, io? quando mai? sono innocente come O.J.Simpson! Gli ho solo passato delle informazioni con l'aiuto del mio amichetto, lui ha fatto tutto da sé."
"non gli hai detto il prezzo!", ringhia Rumplestiltskin (come se lui lo facesse, eh, di dire il prezzo!).
E lei "Ops, me ne sono scordata. ma, ripensandoci, era ovvio: una vita per una vita."
Quindi, ecco la fregatura clamorosa. Rumple, per salvare Neal, è costretto a mollare il pugnale. Questa volta, fra il pugnale e suo figlio, ha scelto suo figlio e l'ha, in pratica, inglobato dentro di sé, il che ha portato alla sua pazzia. E mentre Lumiere si ricorda di avere una coscienza e blocca Zelena, Rumplestiltskin impone a Belle di fuggire cosa che lei fai, in lacrime, portandosi via il candelabro.
Torniamo al presente: Neal chiede a Emma di aiutarlo, di separare lui e Rumplestiltskin. Lei non vuole, ovviamente, perché ha ben capito che questa specie di fusione modello Dragon Ball è l'unica cosa che lo tiene in vita, ma Neal insiste.
Ve la faccio breve: lei agisce, Rumplestiltskin compare e torna in possesso di tutte le sue facoltà mentali, sputtana Zelena... e Neal defunge.
Sì, gente. Defunge. Lacrime a profusione, tonnellate di fazzoletti inzuppati e, sì, un bel po' di stupore. L'avevano detto, che avrebbero ammazzato uno dei personaggi principali e, bene, l'hanno fatto.
Ovviamente, LOLlo ed Emma si precipitano da Sua Melensaggine, ma Zelena è già fuggita dalla finestra del cesso.
Nel frattempo, nella foresta, Zelena ha un confronto serrato con Rumplestiltskin, ma c'è poco da fare: lei ha il pugnale e lui deve obbedirla. E, proprio come Inuyasha quando Kagome gridava "Cuccia!", il nostro eroe è costretto a tornarsene in gabbia.
Mentre gli altri piangono la morte di Neal, Emma va a parlare con Henry e gli racconta la verità, quantomeno una parte: gli dice che si è mossa per venire ad aiutare non un cliente, ma suo padre, che era nei guai. Che ha tentato di salvarlo e non ci è riuscita. Che era un brav'uomo e che sarebbe stato un ottimo padre. Quando Henry dice che avrebbe voluto conoscerlo, lei risponde: "l'hai fatto".
E quando lui le chiede che cosa è successo a coloro che l'hanno ucciso, Emma risponde che l'hanno fatta franca. Ma che li troverà.