lunedì 16 febbraio 2015

L'ultimo samurai: il fascino antico del Giappone.

Sì, lo so che è un film vecchio di dodici anni. Ma che posso dire? L'ho visto per la prima volta solo ieri sera.
Il fatto è che sono un po' allergica a Tom Cruise. E, sì, ce l'avevo pure io il poster di Top Gun, ma dai, sul serio... ancora non vi ha stufato con tutti quei ruoli da bravo ragazzo-eroeveroammeregano? 
A me sì!
Mettiamoci pure che ho una discreta passione per il Giappone, il che porta dritto dritto al "di guardare un'ennesima rivisitazione in salsa occidentale dell'epica del samurai non ce l'ho neanche per l'anima".
Sarò snob, ma, se devo guardare o leggere qualcosa riguardante il Giappone, lo preferisco girato o scritto da un giapponese. 
In altre parole, meno Shogun e più Zatoichi, meno Clavell e più Yoshikawa.
Però ieri ero stravaccata sul divano, reduce da una lunga incursione all'Ikea (stiamo allestendo la cameretta!), su Iris passavano quello... e io ero talmente stracca - non stanca, proprio stracca - che non avevo nemmeno voglia di alzare il dito per pigiare i tasti sul telecomando.
Così l'ho visto.
La storia, a livello di trama, è cliché, ma così cliché che "cliché" non rende nemmeno l'idea. Il solito americano ex-soldato, ma buono con annessa sindrome post traumatica da stress per aver commesso - ma mica per colpa sua, eh!, agli ordini del solito superiore bastardo (che poi sarebbe l'attore che fa il cattivo di Ghost. Ma gli fanno fare solo parti da stronzo, a questo?) - atrocità a spese di un villaggio indiano inerme e indifeso, con massacro di bambini e quindi per questo alcoolizzato, si ritrova a dover addestrare le truppe del neonato esercito imperiale giapponese.
Siamo in piena era Meiji e il giovane imperatore ha un problema: il suo vecchio maestro - Katsumoto - non ha nessuna intenzione di piegarsi alla rivoluzione industriale che viene imposta al paese a discapito di tradizioni vecchie di mille anni, soprattutto perché chi propugna questa modernizzazione lo fa a suo personale vantaggio (vedi il viscido Omura).
In sintesi, il nostro americano traumatizzato inizia il suo lavoro agli ordini - guarda che caso! - del solito superiore stronzo di cui sopra e viene costretto, nonostante abbia detto chiaro e tondo che le truppe ancora non sono pronte, ad attaccare i ribelli. Cosa succede? Che viene fatto prigioniero - unico superstite - proprio da Katsumoto e portato nel suo villaggio fra le montagne dove - dopo aver smesso con la bottiglia - si convertirà ai valori dei samurai diventando più samurai dei samurai e si innamorerà (ovviamente) della sorella di Kasumoto.
Non è che proprio sia una novità assoluta: erano gli anni Ottanta e Shogun raccontava quasi le stesse cose (sì, lo so che uno è ambientato nel Seicento e l'altro alla fine dell'Ottocento, ma sempre di gaijn convertiti ai modi di vita e di pensare del Giappone si tratta).
Tom Cruise è il solito Tom Cruise. Noioso da non dirsi e con il fascino di una cocuzza (ha pure il capello unto). Svetta su di lui Ken Watanabe, che interpreta Katsumoto.
In pratica, se proprio devo dirlo, quello che fa da grande protagonista non è il nostro eroico Tom e neanche la sua controparte giapponese. Non è nemmeno l'epica del sacrificio di sé, la vittoria nonostante la morte per superiorità morale sugli avversari (le truppe che disobbediscono ad Omura e si inchinano al morente Katsumoto, oppure il giovane imperatore che, alle rimostranze di Omura gli suggerisce, nell'unico momento in cui sembra tirare fuori gli attributi, che "io sono il boss e ti dico che è così, se non ti sta bene, questa è la katana, sai cosa farci").
Il vero protagonista, quello che colpisce lo spettatore, è il fascino antico del Giappone, di questa terra in cui tradizioni millenarie sono sopravvissute intatte fino all'epoca moderna.
Sono le armature dei samurai e le katane luccicanti, tramandate di generazione in generazione, la carica dei ribelli che appaiono come fantasmi nel bosco nebbioso, gli scorci di natura incontaminata, l'acqua delle risaie che riflette il cielo, le case con il tetto di paglia e gli shoji in carta di riso, il tempio buddista tirato a lucido, la quiete del cimitero in cui si va a meditare sugli antenati, la particolare visione giapponese della morte, del tutto opposta a quella negazionista degli occidentali, per cui la vita è bellissima ed effimera, quindi godiamo di ogni respiro sapendo che, proprio come i boccioli del ciliegio, stiamo tutti morendo.
Vale la pena guardarlo?
Una volta anche sì. Non è indispensabile. Non è una pietra miliare: è tanto piacevole agli occhi quanto poco impegnativo per la mente.
Però ecco, dopo questo posso stare un altro paio d'anni senza Tom Cruise!

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