martedì 22 luglio 2014

Gravity

A 600 km di altitudine dalla terra, la temperatura oscilla fra -125.5 e i - 100 gradi centigradi.
Non c'è nulla che trasporti il suono.
Non c'è pressione.
Non c'è ossigeno.
La vita nello spazio è impossibile.

Questo basta e avanza per immaginare che andare lassù richieda un coraggio da leoni.
Perché, fra te e la morte, la morte assoluta, sconfinata, gelida e inconoscibile c'è solo una sottile parete ultratecnologica di lamiera.
Uscire all'esterno, fare EVA, è ancora peggio. Quel che ti tiene in vita è la tuta: alla fine, sono fibre di carbonio.
Una problema, anche minuscolo, un dettaglio mal calcolato, un movimento nel momento sbagliato e nel posto sbagliato e sei morto. O destinato a morire - disperso - nello spazio profondo, ad aspettare di soffocare.
Lo spazio non concede seconde possibilità.
È terrificante. E Gravity spinge l'acceleratore su questa paura, portando lo spettatore a condividere l'allucinante esperienza di Ryan - una Sandra Bullock assolutamente strepitosa - ingegnere biomedico prestato alla NASA che, alla sua prima missione, si ritrova, di punto in bianco, nella peggiore delle situazioni possibili: una imprevista pioggia di detriti devasta lo Shuttle, uccide i membri dell'equipaggio a bordo e, per farla molto breve e non spoilerare, Ryan rimane da sola.
I detriti hanno coinvolto anche i satelliti per comunicazioni, quindi il contatto con il comando missione a Houston è saltato.
Perciò, nel silenzio dello spazio profondo, Ryan è sola. Completamente sola.
Tuttavia, ridurre Gravity al solito film d'avventura in cui il protagonista di turno se la cava in una situazione terribile, sarebbe riduttivo.
Perché, per come la vedo io, è anche la storia di una rinascita.
Ryan è un essere umano isolato e ferito dalla morte della figlia, che vuole intorno a sé il silenzio. Il nulla. La vicenda di Gravity è infatti il ritorno di Ryan alla vita tramite la crisi, la perdita - quella di Kowalsky, il comandante della missione, che inizialmente è l'altro sopravvissuto - e la lotta.
Ryan impara a lasciare andare - lasciar andare il ricordo della figlia, lasciar andare alla deriva Kowalsky perché in due non possono salvarsi -, impara a lottare e ritorna alla vita, dopo aver rischiato di lasciarsi morire.
La sequenza finale è semplicemente splendida e vale da sola l'intero film: la discesa nella capsula cinese Shinzou attraverso l'atmosfera, l'atterraggio in un lago, l'apertura del portello con l'acqua che entra, e Ryan che  ne esce - quando ormai la capsula è sul fondo - come da un utero, spogliandosi della tuta da astronauta come della sua vecchia vita, lei che riemerge e respira a pieni polmoni. Ancora è in acqua, non sente il suo peso, fluttua a pelo d'acqua, ma poi nuota verso la riva. Approda e finalmente sente sul suo corpo la gravità. La Bullock è bravissima anche qui a farci capire con il linguaggio del corpo la difficoltà di sentirsi di nuovo il peso addosso, non riesce a tirarsi su, cade, ma sorride e dice "No", e non resta giù, ma si rialza, si alza in piedi - una splendida inquadratura da sotto in su, nella quale sembra alta chilometri -, getta indietro la testa e le braccia, aprendo il petto (lo so che sono una fissata, ma ho riconosciuto la posizione: si fa anche nello yoga, è una posizione di apertura al mondo) e ride, muovendo infine i primi passi. È come assistere all'uscita della vita - intesa in senso lato - dalle acque, una nuova conquista della terra.
Capolavoro.
Non ho trovato la sequenza intera, solo gli ultimi fotogrammi. Ma guardate la meraviglia.


3 commenti:

  1. Che analisi bellissima, mi hai fatto venire voglia di riguardarlo nonostante l'ansia che mi aveva messo addosso! :)

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  2. Grazie, ma in realtà mancano un sacco di cose, tipo la colonna sonora (e il rumore degli insetti alla fine)! È vero, fa venire molta ansia però... quel finale ripaga di tutto!

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  3. La scena finale è davvero bella, è piaciuta molto anche a me. Un ritorno alla vita che viene esaltato anche dal paesaggio selvaggio che la circonda.
    Una ricompensa per i minuti di stress estremo vissuti durante la visione del film: io non riuscivo a staccare le mani dai braccioli del cinema, penso di averli stritolati :D

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