A 600 km di altitudine dalla terra, la temperatura oscilla fra -125.5 e i - 100 gradi centigradi.
Non c'è nulla che trasporti il suono.
Non c'è pressione.
Non c'è ossigeno.
La vita nello spazio è impossibile.
Questo basta e avanza per immaginare che andare lassù richieda un coraggio da leoni.
Perché, fra te e la morte, la morte assoluta, sconfinata, gelida e inconoscibile c'è solo una sottile parete ultratecnologica di lamiera.
Uscire all'esterno, fare EVA, è ancora peggio. Quel che ti tiene in vita è la tuta: alla fine, sono fibre di carbonio.
Una problema, anche minuscolo, un dettaglio mal calcolato, un movimento nel momento sbagliato e nel posto sbagliato e sei morto. O destinato a morire - disperso - nello spazio profondo, ad aspettare di soffocare.
Lo spazio non concede seconde possibilità.
È terrificante. E Gravity spinge l'acceleratore su questa paura, portando lo spettatore a condividere l'allucinante esperienza di Ryan - una Sandra Bullock assolutamente strepitosa - ingegnere biomedico prestato alla NASA che, alla sua prima missione, si ritrova, di punto in bianco, nella peggiore delle situazioni possibili: una imprevista pioggia di detriti devasta lo Shuttle, uccide i membri dell'equipaggio a bordo e, per farla molto breve e non spoilerare, Ryan rimane da sola.
I detriti hanno coinvolto anche i satelliti per comunicazioni, quindi il contatto con il comando missione a Houston è saltato.
Perciò, nel silenzio dello spazio profondo, Ryan è sola. Completamente sola.
Tuttavia, ridurre Gravity al solito film d'avventura in cui il protagonista di turno se la cava in una situazione terribile, sarebbe riduttivo.
Perché, per come la vedo io, è anche la storia di una rinascita.
Ryan è un essere umano isolato e ferito dalla morte della figlia, che vuole intorno a sé il silenzio. Il nulla. La vicenda di Gravity è infatti il ritorno di Ryan alla vita tramite la crisi, la perdita - quella di Kowalsky, il comandante della missione, che inizialmente è l'altro sopravvissuto - e la lotta.
Ryan impara a lasciare andare - lasciar andare il ricordo della figlia, lasciar andare alla deriva Kowalsky perché in due non possono salvarsi -, impara a lottare e ritorna alla vita, dopo aver rischiato di lasciarsi morire.
La sequenza finale è semplicemente splendida e vale da sola l'intero film: la discesa nella capsula cinese Shinzou attraverso l'atmosfera, l'atterraggio in un lago, l'apertura del portello con l'acqua che entra, e Ryan che ne esce - quando ormai la capsula è sul fondo - come da un utero, spogliandosi della tuta da astronauta come della sua vecchia vita, lei che riemerge e respira a pieni polmoni. Ancora è in acqua, non sente il suo peso, fluttua a pelo d'acqua, ma poi nuota verso la riva. Approda e finalmente sente sul suo corpo la gravità. La Bullock è bravissima anche qui a farci capire con il linguaggio del corpo la difficoltà di sentirsi di nuovo il peso addosso, non riesce a tirarsi su, cade, ma sorride e dice "No", e non resta giù, ma si rialza, si alza in piedi - una splendida inquadratura da sotto in su, nella quale sembra alta chilometri -, getta indietro la testa e le braccia, aprendo il petto (lo so che sono una fissata, ma ho riconosciuto la posizione: si fa anche nello yoga, è una posizione di apertura al mondo) e ride, muovendo infine i primi passi. È come assistere all'uscita della vita - intesa in senso lato - dalle acque, una nuova conquista della terra.
Capolavoro.Non ho trovato la sequenza intera, solo gli ultimi fotogrammi. Ma guardate la meraviglia.
Che analisi bellissima, mi hai fatto venire voglia di riguardarlo nonostante l'ansia che mi aveva messo addosso! :)
RispondiEliminaGrazie, ma in realtà mancano un sacco di cose, tipo la colonna sonora (e il rumore degli insetti alla fine)! È vero, fa venire molta ansia però... quel finale ripaga di tutto!
RispondiEliminaLa scena finale è davvero bella, è piaciuta molto anche a me. Un ritorno alla vita che viene esaltato anche dal paesaggio selvaggio che la circonda.
RispondiEliminaUna ricompensa per i minuti di stress estremo vissuti durante la visione del film: io non riuscivo a staccare le mani dai braccioli del cinema, penso di averli stritolati :D