John Carter di Marte (che comprende i primi tre libri del fortunato ciclo: La Principessa di Marte, Gli dei di Marte e Il signore della Guerra) era proprio quel che mi ci voleva dopo la mia brutta esperienza con Non-A (attenzione, non sto dicendo che Non-A sia un pessimo libro. Sto dicendo che io non sono riuscita ad apprezzarlo. Con tutta probabilità è un capolavoro immortale, quindi my bad).
Comunque, quello che mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo è che John Carter di Marte è semplice.
Non ci sono intrighi politici interplanetari da scoprire, né amici-sospetti nemici, né scopi nascosti.
Per un fenomeno misterioso - che all'autore non interessa chiarire e che il lettore prende così com'è - John Carter della Virginia, formidabile avventuriero, finisce trasportato su Marte. Il suo corpo fisico resta fermo (in animazione sospesa, in pratica), in una caverna, mentre lui nudo come un bruco, si ritrova di punto in bianco in un altro mondo.
E, intraprendente e coraggioso, riesce a sopravvivere (cosa non semplice), fare fortuna e, il che non guasta, sposare la più bella delle belle, Dejah Thoris, la Principessa di Marte.
Lo schema di Burroughs è abbastanza collaudato, perché fondamentalmente è lo stesso che ha seguito per Tarzan, il suo personaggio più famoso, ma c'è da dire che le avventure di John Carter proprio non annoiano. Il poveraccio non ha un momento di respiro, cade sempre dalla padella nella brace (perdonate la frase fatta) e quando sembra che possa rifiatare un momento... aspettate la fine del capitolo perché sicuramente gliene capiterà un'altra peggiore.
Forse i personaggi non sono tutto questo tripudio di approfondimento psicologico e tridimensionalità (John Carter è, tocca dirlo, un po' uno stereotipo ambulante dell'eroe, così come la sua controparte femminile è lo stereotipo dell'eroina) e la prosa ottocentesca (il racconto è ambientato all'incirca verso il 1890) non è che aiuti molto, e poi, sì, tutte le femmine barsoomiane umanoidi (ci sono anche la marziane verdi, ma sono tutt'altra storia) si innamorano del prode John, il quale, da vero galantuomo, le cava dai guai per poi informarle che nel suo cuore c'è posto per un'unica donna, la divina Dejah Thoris.
Ma alla fine, chissenefrega, è divertente così.
Va detto che, poveraccio, Burroughs gliela fa sudare, la felicità coniugale: alla fine del primo libro, dopo aver salvato il pianeta intero dall'asfissia, si ritrova catapultato sulla Terra, separato dalla sua amata da giusto qualche chilometro di vuoto cosmico.
A piedi.
Quando riesce a tornare su Barsoom, beh, intanto scopre che sono passati dieci anni e poi che Dejah Thoris è scomparsa. Ci mette tutto il libro per ritrovarla, soltanto perché, proprio davanti ai suoi occhi, il malvagio di turno la imprigioni con altre due donne (una delle quali, innamorata di John, la vorrebbe far fuori a coltellate) in una cella che non si aprirà per un anno intero.
Un anno intero senza sapere se è sopravvissuta o meno.
E che dire del terzo libro? Lui trova il modo di aprire la cella anticipatamente soltanto per vedersi rapire la moglie sotto il naso e doverla inseguire per tutto Barsoom (e lì ci vuole un altro anno perché finalmente si possano ricongiungere).
A un'occhiata superficiale, potrebbero parere le mirabolanti avventure di un perfetto eroe, quel genere di personaggio che la sottoscritta poco sopporta, ma, a tratti, Burroughs lascia vedere il romanziere di razza. Per esempio, nel narrare la storia di Tars Tarkas e di sua figlia Sola, che mi è rimasta nel cuore. E nelle descrizioni di Barsoom, delle meravigliose città in rovina, delle vie d'acqua ormai asciutte, della ferocia con cui i suoi abitanti lottano per la vita in un ambiente che perdona e lascia andare avanti solo i più forti.
Non è uno dei miei autori preferiti, né posso dire che sia il Cosmo Oro che mi è piaciuto di più, ma merita di essere letto.
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