lunedì 15 ottobre 2012

What scares me the most when I consider writing for a living, and WHY does it scare me?

Anch'io, come Marina, ho comprato Mugging the Muse e lo sto leggendo. (In attesa di Novelist's Boot Camp, che dovrebbe essere qui oggi).
Quando ho per le mani un manuale (scusate l'orrido gioco di parole) mi scatta la modalità album Panini (questo ce l'ho, questo mi manca) e ci metto un po' a disattivarla (è nocivissima): insomma, è finita che mi sono trovata a riflettere sul primo esercizio che la Lisle propone e che consiste proprio nel rispondere alla domanda del titolo. Usando dalle cento alle centocinquanta parole.
Il guaio, se guaio vogliamo chiamarlo, è che ce ne ho messe meno di cinquanta.
Cosa mi spaventa di più se considero l'ipotesi di sostentarmi con la scrittura? 
(Per rispondere, comunque, ho dovuto fare appello alla mia sospensione dell'incredulità. Il primo pensiero è stato: vivere di scrittura? Qui?)
L'idea di non riuscire a vivere delle storie, di non riuscirne a produrre tante e di tale qualità da garantirmi un'esistenza serena.
Lo vedo come un mestiere precario e, detto da una che fa libera professione, è un controsenso. Però è così che mi sento: probabile che sia una questione di insicurezza del tutto personale: mentre so di saper fare il mio lavoro, non sono altrettanto sicura di me quando si va sulla scrittura.
Voglio potermi permettere un tetto sopra la testa, il mangiare nel piatto e le bollette pagate - prima di tutto. Fare la mia parte nel bilancio familiare. I miei libri. Qualche sfizio.
E poi, per me è la scrittura è, prima di tutto e soprattutto, divertimento. Libertà di creare quello che mi va, di andare avanti a ruota libera, di non pormi il problema che piaccia a qualcuno, senza scadenze, senza ansie.
Nel momento in cui da essa dovesse dipendere il sostentamento, questo approccio decadrebbe. 
E subentrerebbero pressioni di altro genere, che, mi conosco, rovinerebbero tutto quanto.
Questa domanda mi ha messo un po' in crisi, non lo nego.
Perché sono certa che lo scrittore vero risponderebbe magari le stesse cose, ma sarebbe disposto a qualsiasi sacrificio pur di realizzare il sogno di mantenersi con le proprie storie. 
La realtà è che a me scrivere piace, ma non abbastanza per fare la fame in suo nome. 
Un boccone non tanto dolce, da mandare giù...

9 commenti:

  1. Io non sono d'accordo con la tua conclusione. Lo scrittore "vero" secondo me è quello che si fa il culo per scrivere al meglio delle sue capacità.
    Magari mi sbaglio, ma contano i risultati, non vedo il senso del morire di fame per dimostrare al mondo che si è un vero (stereotipo di) scrittore.

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    1. Non è una questione di morire di fame o non morire di fame. O meglio, io l'ho messa giù troppo piatta e non mi sono fatta capire.
      Il discorso è che il vero scrittore, secondo me, ha il sogno di campare della propria scrittura. Considerato come sono le cose in Italia, è un sogno destinato a rimanere tale per la maggioranza degli aspiranti scrittori - ma anche di quelli affermati, credo che pochi si mantengano esclusivamente con quella. Però, penso che lo scrittore vero sia disposto a rischiare nel tentativo di far avverare il proprio sogno.
      Se un domani mi chiedessero: "Quanto sei disposta a sacrificare per la scrittura?", onestamente non saprei cosa rispondere.
      Magari sono io che sbaglio, ma penso che uno o è scrittore o non lo è. Se lo sei, scrivere è come respirare e non nel senso che viene automatico: nel senso che non ne puoi fare a meno. Se non lo sei, puoi anche essere bravo e avere talento, ma... resti un dilettante.

      Che poi contino i risultati, anche lì possiamo discutere. Quali risultati? Il successo? Le copie vendute? Le recensioni positive?

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  2. Okay, mettendo da parte il fatto che qui in Italia non c'è la situazione giusta perché si realizzi, è vero, è sicuramente il sogno della maggior parte degli scrittori.
    Però non è il caso di farsi demoralizzare se non sei disposta a rischiare il tuo benessere per vivere di scrittura, è normale che sia così, anche i grandi nomi (così a memoria mi vengono in mente King, Pratchett e Martin), hanno aspettato di cominciare a guadagnare prima di mollare il lavoro ;)

    Quali risultati?
    L'aver prodotto un lavoro di qualità oggettiva (gusti personali a parte)...?
    Moccia vivrà pure di sola scrittura, ma questo ai miei occhi non ne fa un vero scrittore :S

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    1. anche i grandi nomi (così a memoria mi vengono in mente King, Pratchett e Martin), hanno aspettato di cominciare a guadagnare prima di mollare il lavoro ;)
      Ma io non lo mollerei comunque, il lavoro. Anche nell'ipotesi (ad altissima improbabilità) che i miei (eventuali) libri dovessero vendere. Mi piace il mio lavoro. E non solo: come scribacchina "funziono" se e solo se non ho responsabilità, se non devo pensare di pagare le bollette con la scrittura. Mettimi sul groppone una responsabilità del genere ("deve vendere o non mangio") e io ho bell'e smesso di scrivere.

      L'aver prodotto un lavoro di qualità oggettiva (gusti personali a parte)...?
      Non c'è nulla di oggettivo, nella scrittura, se non la correttezza grammaticale. E anche lì ci sono eccezioni.

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    2. Mi piace il mio lavoro.
      Ecco, fra le altre cose XD

      Non c'è nulla di oggettivo, nella scrittura
      E su questo non sono d'accordissimo, ma vabbè, questione di opinioni.

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    3. E su questo non sono d'accordissimo, ma vabbè, questione di opinioni.

      Voglio dire, per me Tuailait, tanto per non fare nomi, è orribile, ma ci sono milioni di persone che l'adorano... e allora? Sono milioni di deficienti e io sono l'unica furba? Non credo.
      Invece, la grammatica è oggettiva: la usi in modo giusto o la usi in modo sbagliato.

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  3. E' decisamente una domanda interessante e credo che la mia risposta sarebbe la stessa di Valentina. Non mi ci vedo a dover rispettare scadenze (già l'aver promesso di finire un racconto per fine anno mi sta bloccando) o dover "adattare" le mie storie, i personaggi o le ambientazioni per questioni di pubblico, di migliori vendite o altro ancora.
    Certo è un sogno che sicuramente rimarrà nel cassetto e non ne uscirà mai, ma è bello poter sognare e rimanere liberi di scrivere ciò che si vuole anche solo per rilassarsi dopo una giornata stressante, abbandonandosi ai propri mondi di fantasia.

    Poi vista la situazione attuale tutto questo mi metterebbe una certa paura anche se dovessi vendere milioni di libri, anzi forse proprio per questo motivo avrei ancora più paura del futuro. Tutto ciò significa non essere uno scrittore? Non credo proprio! Il bello dello scrivere è, a mio parere, il poter rappresentare in modo concreto qualcosa che ci frulla per la testa e che sentiamo dentro, essere contenti per il solo fatto di averlo scritto e in un certo senso reso reale.

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    1. Il bello dello scrivere è, a mio parere, il poter rappresentare in modo concreto qualcosa che ci frulla per la testa e che sentiamo dentro, essere contenti per il solo fatto di averlo scritto e in un certo senso reso reale.
      Sono d'accordissimo sul fatto che sia il bello dello scrivere.
      Ma questo non "fa" lo scrittore: altrimenti, non ci sarebbe differenza fra un falegname e una persona che si diletta di bricolage.
      Uno è un professionista, l'altro no.
      Ora, la mia domanda è questa: cosa distingue lo scrittore "professionista" (ma, intendo, professionista dentro, non a livello di vendite) da chi è solo un dilettante entusiasta, magari anche molto bravo?
      È qualcosa che ha a che fare con la disposizione d'animo, con quello che - mi spiego - ti dà la forza di rischiare per avverare un sogno?

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    2. Sinceramente non so darti una risposta. Le motivazioni che spingono in una o l'altra direzione potrebbero essere diverse come, per esempio, la passione o la paura.

      La passione per la scrittura potrebbe travolgere uno scrittore "professionista dentro" tanto da renderlo immune a qualsiasi difficoltà. Non importa che sia bravo o meno oppure che abbia successo o no, lui scrive perché qualcosa dentro di lui lo spinge a farlo e tutto questo probabilmente gli dà, come dici tu, sia la predisposizione d’animo che la forza di rischiare.

      Dall’altra parte invece, nonostante l’entusiasmo, scatta forse la paura. La paura di essere criticato o che il proprio scritto non sia all’altezza (di non so cosa). La paura che il proprio futuro sia incerto, forse perché è troppo razionale e neanche lui ci crede veramente. Però nonostante si renda conto che non sfonderà mai, il “non professionista” scrive lo stesso, in fondo per lui non è importante avere successo, la sua vita non è incentrata sulla scrittura.

      Però credo che entrambi scrivano prevalentemente per se stessi e poi per gli altri. In ogni caso questa è solamente una mia idea, forse un po’ romantica in un caso e troppo realistica nell’altro, chi lo sa... Io no di sicuro... :o)

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